| Scivolata via, come un sogno. I pochi elementi che ancora facevano presa sulla sua memoria erano destinati all’obliante e caleidoscopico crogiolo in cui l’alba trascina le ultime tracce dei ricordi lontani. Ma non era un ricordo, non un’impalpabile reminescenza bensì, per l’appunto, un sogno. Il dubbio si baloccava delle sue percezioni, era tutto troppo intenso per essere onirico e troppo labile e sfuggente per appartenere al passato. La diciassettesima notte d’ottobre era prossima. La prima accompagnata da quella strana sensazione agrodolce. Quella nostalgia appiccicosa che intorpidisce e si insinua nelle ossa, che prende la mano e guida per una città che credevi tua, che eri convinto di conoscere. Conduce per vie nuove di cui non si sospetta l’esistenza o che non esistono affatto e di colpo sei uno straniero del mondo. Gary O’Hara, era questo il suo nome o non lo era? Nemmeno lui ne era sicuro. Gary O’Hara, non ancora trentenne, ascoltava ipnotizzato il suono dei propri stivali, inseguendo con lo sguardo la rossa luce di un sole che tramontava troppo in fretta scorrere fugace, come sangue, tra le screpolature del marciapiede. Pareva ansioso, il sole, di lasciare libero il cammino al ben più nobile plasma di sua sorella, l’argentea Selene. Qualcosa era scattato nella testa di Gary O’Hara, un qualcosa privo di senso, la squisita monotonia della sua vita si era spezzata aprendo un baratro là dove, appena il giorno prima, batteva il suo cuore. Quasi due settimane erano trascorse da quando era accaduto quel fatto. Un piccolo gesto da parte di una persona sconosciuta a cui in qualche modo Gary riconduceva ogni sua sensazione odierna e ogni vagabondaggio compiuto in quello che aveva battezzato, novello Vespucci, il suo “Mondo di Sotto”.
Era stato durante una fredda mattinata autunnale come mille altre: il solito bar, lungo, stretto e dipinto d’un bianco accecante, il solito caffè liscio con una bustina di zucchero di canna bevuto tutto in un singolo sorso. Azioni meccaniche, eseguite con precisione chirurgica e senza indugio alcuno. Era pronto ad affrontare un’altra giornata quando qualcosa lo trattenne, buttò un’occhiata all’orologio e si rese conto di avere ancora una decina di minuti a disposizione. Questo non era mai capitato. La porta del locale si aprì nell’esatto momento in cui si alzò per usufruire dei servizi, voltò la testa intravedendo dei lunghi riccioli femminili d’un piacevole nero. Si sentì osservato. Quando uscì dal bagno rivide gli stessi ricci fuori dal bar, attraverso la vetrata, e stavolta fu la loro proprietaria a voltarsi, scoprendo un profilo netto ma armonioso e fissandolo per un istante con un intenso occhio scuro. “E’ tutto qui” Fu questo il suo unico pensiero. Tornò al tavolo per recuperare il cappotto quando notò un rettangolino di carta ammiccargli accanto alla tazzina vuota. Sopra, un numero. Dieci cifre nere disegnate con un tratto morbido e tondeggiante tipicamente femminile. Sorrise, infilando quel biglietto nel portafogli. Avrebbe potuto telefonare in qualsiasi momento della giornata, ma preferì attendere di essere a casa. Come un bambino si fionda sotto l’albero la mattina di Natale si gettò sul telefono. Le dita si strinsero nervose attorno alla cornetta quando dall’altro capo giunse un flebile sussurro: - Raggiungimi. Ancora, dopo un attimo di silenzio: - Conosci il cammino. Lui non disse nulla, non rispose, non ne ebbe il tempo. Senza pensare uscì sul pianerottolo e discese le scale in balia di nuove sensazioni e piacevoli inquietudini. Conosceva il cammino. Le strade erano buie e deserte, riconoscibili a fatica senza il viavai di gente che soleva calcarle ad ogni ora del giorno. Le vie prive di vita mutavano, complici le ombre, in mute e possenti navate di cattedrale, i balconi trasfiguravano in severi matronei e i lampioni si facevano archi rampanti. I comignoli furono guglie e l’empireo un maestoso affresco raffigurante tutte le meraviglie a cui l’uomo, invano, agogna da tempi immemori. Gary imboccò una serie infinita di percorsi, via via più stretti, quasi catacombe a cielo aperto. Camminò fino a smarrirsi. Fu in quel momento che, confuso e disorientato, trovò ciò che cercava. Non la vide chiaramente, ma sentì la sua mano afferrare la propria trascinandolo a sé, sottili braccia stringerlo, morbide labbra sfiorarlo desiderose di un bacio e poi di nuovo il buio più nero accoglierlo tra le sue grinfie, mentre qualcuno in lontananza chiamava il suo nome. A questo punto la strada tornò grigia e spoglia e lo riaccompagnò verso casa.
Il breve viaggio di quella prima notte fece sbocciare in lui un profondo e sincero amore per una donna di cui non conosceva nulla se non pochi e delicati frammenti. Ogni volta, il viaggio, si faceva sempre più profondo nelle astratte viscere della città e ogni volta quella donna mostrava qualcosa di sé: sorrisi melanconici, lembi di pelle, ciocche di capelli, sguardi fugaci; tutti dettagli che privavano Gary della facoltà di muoversi e di emettere suono alcuno. Nel “Mondo di Sotto” era una marionetta, il cui libero arbitrio andava conquistato un filo alla volta, notte dopo notte. E notte dopo notte le sue percezioni si espansero, si rese conto di potersi muovere liberamente, si sentì come un bambino che trema sulle gambe durante i primi passi. I suoi sensi si stavano abituando alle rarefatte atmosfere di quel regno sepolto che prendeva vita al suo passaggio. Le stanze, che stanze non erano, si susseguivano una dopo l’altra, ampie, vuote e colme di addii, ma lui non era mai solo. Lei era sempre lì. Distante e vicina, algida e passionale, lei c’era. Gli venne concesso il dono della parola, avrebbe voluto sapere tutto di lei ma si accontentò di porre una sola domanda: - Qual è il tuo nome? La risposta, che non ci è concesso conoscere, suonò per lui come il canto della sirena suona al marinaio esausto, vellutata e sublime. Era un nome carico di promesse. Un nome quasi privo di volto, ma gli bastava. Non si pose mai il quesito razionale di chi fosse quella donna, cosa realmente accadesse dopo l’imbrunire, forse qualcuno si stava prendendo gioco di lui, entità che non sarebbe mai riuscito a concepire, forse uno scherzo del fato che tutti ci controlla come pedine sulla scacchiera della vita o forse, più semplicemente, si trattava di amore nella sua forma più perfetta.
In fondo, due parole sarebbero bastate a definire tutto quanto.
Venne il sedici ottobre. Gary viveva la sua vita diurna senza spinta, in modo apatico e atarassico, sentiva di esistere solo in funzione della sua cattedrale, il suo “Mondo di Sotto”, ed anche quella notte si perse per crepuscolari mulattiere e dedali eburnei. Si trovò circondato da evanescenti figure danzanti, dentro le quali ardeva una labile fiammella bluastra. - Un fuoco eterno. Ebbe tempo appena sufficiente per riconoscere la sua voce e subito rimase rapito in un torpido e sonnolento valzer. La luna si gonfiò, rendendo ancora più eclatante la completa eclisse che subì quando, guardata dalla coppia, si emozionò al pari di un comune essere umano. Era un pessimo ballerino, anzi, non lo sapeva. Non aveva mai ballato in vita sua. La mano dell’amata lo guidò con accortezza lungo la pista da ballo e le movenze gli nacquero spontanee. - Vorrei vederti. - disse lui. - Mi vedi. - Non come vorrei. - Anche se potessi vedere il mio viso, ci sarebbero mille altre cose che ti resterebbero nascoste. - Io non voglio spiegazioni. - E cosa vuoi? Le pose entrambe le mani sui fianchi e chinò il volto sul suo. - Vorrei restare sotto questa luna piena - l’eclisse cessò e tutto si fece argenteo - senza inferni o dolori, senza pene da scontare. - Danzare? Finché non resterà altro che cenere e polvere di ogni cosa? - Finché le nostre vite non saranno appassite, scomparse sotto una lenta pioggia di sogni. Lei alzò il capo. Gary la vide e la baciò. In fondo, due parole sarebbero bastate a definire tutto quanto. - Ti amo.
Le dissero assieme.
La notte del diciassette ottobre il cielo non sarebbe rimasto limpido. Minacciose nuvole non aspettavano altro che le stelle si alzassero per ghermirle senza pietà. Gary O’Hara, forse era questo il suo nome, forse no, ma dopotutto non ne era sicuro nemmeno lui al momento. Gary O’Hara si sentiva smarrito e vuoto: Gary si sentiva incompleto. Non sapeva spiegarsi il perché di quella assurda ed irrefrenabile voglia di stare fuori casa ad aspettare che il sole calasse e la luna si facesse alta sulla città. Camminò per le vecchie vie divorato da una crescente malinconia a cui non sapeva dare una ragione. Cercò di perdersi, spinto da qualche recondito desiderio sepolto nei meandri della sua mente, ma la città gli era orrendamente nota. Le prime gocce iniziarono a farsi sentire, tamburellandogli su testa e spalle. C’era qualcosa di malsano in quella pioggia, si sentiva oppresso e obnubilato da quell’acqua che percepiva sporca e virulenta. Alzò gli occhi verso l’alto. - Niente stelle. Il cielo era pesante, d’un grigio antracite, vorace e striato di nero. Lontano com'era da casa si trovò presto coinvolto in un violento temporale. Per alcuni minuti trovò riparo sotto un balcone nella speranza che il tempo migliorasse. Abbandonò presto questa speranza: si infilò le mani nelle tasche dei pantaloni e si preparò ad affrontare l’acquazzone. Corse per una decina di metri, fino al lampione più vicino, quando le sue dita toccarono quello che sembrava un piccolo rettangolo di carta. Lo tirò fuori e gli diede un’occhiata. Per qualche istante, prima che la pioggia le cancellasse per sempre, scorse le prime cifre di un numero telefonico. Gary sentì una fitta trapassargli il cuore e si inginocchiò in mezzo alla strada. Pianse, pianse come non aveva mai fatto in vita sua. Pianse senza saperne il motivo, pianse come se la persona che amava gli fosse stata portata via.
Qualcuno, in lontananza, sussurrava un nome. Un nome tanto familiare quanto sconosciuto. Quel nome si perse in mezzo ai lampi, scivolando tra gli impetuosi torrenti di lacrime e pioggia di una città spietata, per giungere in quel luogo dove vanno a rifugiarsi i sogni che con disperata passione non si rassegnano a perire nei recessi della notte morente.
Edited by Moretti Federico - 18/3/2013, 11:04
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