Uncle Walt
“YAWP!”Fu questo urlo barbarico a farmi svegliare di soprassalto. Mi sollevai a sedere sul letto come fossi stato caricato a molla, mi sentivo a dir poco confuso e stordito. Di fronte a me vedevo delle sottili lame di luce incunearsi negli interstizi presenti fra la porta e gli stipiti e colpire di traverso il letto e il pavimento. Sia pure in quella semioscurità, ero certo di non aver mai visto prima quella porta posta davanti a quel letto, che non era il mio; quella non era la mia stanza. “Dove sono?” mi chiesi mentre vedevo la porta vibrare a causa delle scosse che riceveva dall’esterno. Qualcuno stava cercando di entrare.
Sentii quella stessa voce che mi aveva destato, dire in tono perentorio:
“Togliete le serrature dalle porte!
Togliete anche le porte dai cardini!”Ero già spaventato a morte quando vidi la porta, all’apparenza massiccia, venir giù come fosse stata di carta velina. Una luce accecante penetrò di colpo nella piccola stanza, costringendomi a chiudere gli occhi, a ripararmi con una mano e voltarmi di lato. Dopo qualche attimo, abituatomi un poco a quella luce, potei vedere la figura di un uomo grande e grosso dove c’era stata la porta. Non potevo distinguerlo nei dettagli, ne vedevo solo i contorni, era, in effetti, una grande ombra.
Avrei voluto urlare ma non ne avevo le forze. Ogni urlo sarebbe stato, tuttavia, inutile, avevo la netta sensazione che nessuno avrebbe potuto sentirmi e, meno che mai, accorrere in mio soccorso.
I miei occhi si abituavano sempre più alla luce e sempre meglio potevo vedere quell’uomo. Quando mi si avvicinò con passo calmo, per niente minaccioso, potei scorgerlo meglio: era effettivamente molto alto e possente, teneva in testa un cappello dalla tesa larga e aveva una lunga barba bianca, come pure i capelli. Mi tese la mano. Non avevo più paura.
“Chi sei?” chiesi con tono pacato ma deciso.
“Io sono il poeta del Corpo, io sono il poeta dell’Anima,
i piaceri del cielo sono con me e le sofferenze dell’inferno sono con me,
i primi li innesto e li faccio crescere su me stesso, questi ultimi li traduco in una nuova lingua”Avevo capito, adesso tutto mi era chiaro: sapevo!
Allungai a mia volta il braccio e gli strinsi la mano, mentre dalla mia bocca, senza che le pensassi, uscirono queste parole:
“Oh, prendimi per mano, Walt Whitman!”Mano nella mano ci portammo sulla soglia di quella sconosciuta stanza, davanti a me vidi una sconfinata prateria, erba seccata dal sole oscillava nella brezza di una giornata meravigliosa. Ci incamminammo dritti davanti a noi. Lontanissimo potevo vedere l’orizzonte, costituito da una linea immaginaria dove l’erba incontrava il cielo terso. Solo dopo aver compiuto diversi passi, mi accorsi di essere scalzo, ma non dissi niente e proseguii mano nella mano con il Bardo. Quando, dopo sì e no un centinaio di passi, volsi lo sguardo all’indietro, mi accorsi che la casa o la stanza dove dormivo non c’era più.
Il mio compagno si fermò e mi indicò una collinetta sulla nostra destra. Ci dirigemmo verso la sua vetta, non era molto alta o ripida, e sulla cima stava un albero. Avvicinandoci alla vetta scorsi dapprima la parte superiore di una croce di legno e poi il mucchio di terra a capo del quale era stata piantata. Ci fermammo ai piedi di quella che, non vi erano dubbi, era una tomba.
Ancora una volta la mia bocca mi sorprese:
“Questa polvere fu una volta un uomo” dissi rivolgendomi a Walt. Guardandolo dal basso in alto a causa della nostra diversa statura, scorsi una lacrima rigargli il volto ruvido. Lo udii mormorare con un filo di voce - la voce forte e perentoria di pocanzi sembrava un lontano ricordo -
“O Capitano! Mio Capitano!”, mentre con una mano si asciugava quella lacrima solitaria.
Rimanemmo non saprei dire per quanto tempo in silenzio a contemplare quel mucchio di terra, poi, da lontano, alla nostra sinistra, udimmo degli spari e delle grida. Questi suoni ci distolsero da quello stato d’intorpidimento nel quale eravamo precipitati, ci voltammo all’unisono verso quei rumori e come fossimo un plotone in marcia ci dirigemmo verso di essi. Camminammo con passo spedito, io scalzo e lui con degli stivaloni ai piedi, sempre mano nella mano. Arrivati in cima a un avvallamento, guardammo in basso, verso quegli scoppi e quelle urla. Giù, a valle, si stava combattendo una battaglia. Vedemmo fumo uscire dalle armi e polvere sollevarsi per il passaggio di uomini e cavalli. Nell’aria si sentiva odore di sangue e di morte. Giovani uomini vestiti di blu si confrontavano armi in pugno con giovani uomini vestiti di grigio. Rimanemmo incantati, impotenti, sbalorditi dalla naturalezza con la quale quegli uomini portavano a termine quello che doveva apparigli come un dovere. Quanto onore potevamo scorgere dalle loro movenze marziali e quanto dolore potevamo percepire nei cuori di quelle donne lontane, rimaste a casa ad aspettare e pregare!
Un lamento ci scosse. A non più di dieci metri da noi c’era un soldato a terra che si lamentava per il dolore: “Aiutatemi, non voglio morire”. Walt, dimentico del carico di anni che portava sulle spalle, accorse con passo spedito e agile accanto al ferito e con voce ferma disse:
“Recando bende, l’acqua e la spugna,
rapido mi dirigo verso i miei feriti,
dove giacciono per terra, ivi portati dopo la battaglia,
dove il loro sangue prezioso arrossa l’erba per terra”.Io mi mossi dietro di lui. Quel soldato aveva uno squarcio terrificante lungo la coscia sinistra, un fiotto di sangue ne sgorgava copioso.
“Non voglio morire” piagnucolava il ragazzo.
Walt si strappò una striscia di stoffa dalla camicia, ne fece un laccio emostatico e lo legò stretto intorno alla coscia del giovane per fermare l’emorragia. “Avvicinati”, mi comandò, “strappati anche tu la camicia, facciamone delle pezze per pulire la ferita di questo povero figlio”. Eseguii senza indugio l’ordine, mentre il soldato continuava a invocare il nostro aiuto.
“Dite a mia madre che le volevo bene, dite a mio padre che sono morto onorevolmente per servire la causa, la sua causa”.
Né a Walt né a me interessava il colore della sua divisa, facemmo del nostro meglio per alleviargli il dolore, per confortarlo. Quando spirò fra le braccia possenti del mio compagno, ci guardammo negli occhi e vedemmo ognuno il dolore dell’altro per una giovane vita, ancora nel pieno rigoglio delle forze, spegnersi precocemente a causa della guerra.
Non si udivano più gli spari, c’era silenzio intorno a noi. Stavamo di nuovo camminando - mano nella mano, io sempre scalzo - su una strada sterrata, sembrava la via principale di una qualche cittadina. Nell’aria avvertii il sapore salmastro del mare. Era tarda sera, il buio era soltanto in parte mitigato dalle stelle che brillavano alte nel cielo. Si udivano, non troppo lontano, le onde dell’oceano lambire le coste della Louisiana. Vedemmo una figura di donna avvicinarsi a lunghe falcate verso di noi. Ci fermammo in mezzo alla strada. La donna si avvicinava sempre più. Giunta a una decina di metri da noi rallentò il suo passo, tuttavia proseguendolo. Quando ci fu a meno di un metro, ci guardò dritti negli occhi, prima Walt e poi me. La donna creola allungò le mani verso il mio viso, lo strinse e, sollevandosi leggermente sui piedi, mi diede un bacio sulle labbra. Poi, com’era venuta se ne andò. Guardai Walt con sguardo interrogativo, lui si limitò a sorridermi e, con il braccio libero, a invitarmi a proseguire il nostro cammino.
Si rifece giorno quando, camminando lungo un sentiero di campagna verso un boschetto, udimmo delle grida, questa volta di gioia. Walt mi guardò e sorrise stringendomi con più vigore la mano e invitandomi ad accelerare l’andatura. Ci stavamo dirigendo verso quelle voci giocose. Dopo circa duecento metri ci trovammo di fronte a un laghetto dall’acqua limpida, quasi trasparente, situato proprio all’inizio di quel boschetto di cui vi dicevo. Le grida provenivano da quattro ragazzi che stavano facendo il bagno, schizzandosi l’acqua a vicenda. Walt mi lasciò la mano e, senza aprire bocca, mi fece intendere con lo sguardo e con i gesti il suo desiderio che anche io mi unissi a quei giovani. Mi tolsi la camicia da notte - perché è così che ero abbigliato, non ve l’avevo ancora detto. Indossavo una di quelle camicie da notte che gli uomini usavano tanto tempo fa, inoltre la mia era anche più corta del normale dopo che ne avevo ricavato alcune bende per curare quel soldato. Dunque, stavo dicendo, mi tolsi la camicia da notte e nudo mi tuffai nell’acqua fredda ma non gelida del lago. Nuotai verso gli altri e questi, come se mi conoscessero da lunga data, subito si coalizzarono per circondarmi e farmi oggetto dei loro schizzi giocosi. Io cercai di difendermi schizzando acqua a mia volta, verso tutte le direzioni. Dopo qualche minuto mi voltai verso riva e vidi Walt: se ne stava seduto sul tronco di un albero caduto, con il cappello poggiato su un ginocchio e guardava verso di noi. Non faceva niente per nascondere la sua gioia.
Quando uscii dall’acqua, fu Walt stesso a pormi la camicia da notte e darmi una vigorosa strofinata; il tutto continuando a ridere felice.
Riprendemmo il nostro cammino. Questa volta viaggiavamo pur stando fermi, ci trovavamo, infatti, su un battello. Solcavamo il fiume Hudson con il vento che accarezzava i nostri volti e ci scompigliava i capelli. Avevamo Manhattan alla nostra sinistra. Walt m’indicò il guidatore del battello. “Conosco quel vetturino” mi disse “si chiama Peter, è mio amico”. Viaggiammo tutto il giorno e tutta la notte, dolcemente cullati dalle onde dell’oceano. Quando sorse di nuovo il sole, vedemmo davanti a noi il porto di San Francisco.
Scesi a terra ci ritrovammo in un luogo decisamente diverso dal precedente. Non parlo del luogo in sé, era più un fatto di atmosfera. Dopo l’iniziale smarrimento ebbi come l’impressione che la differenza stesse nel tempo. Non mi riferisco al tempo atmosferico ma proprio al tempo: anni. Erano passati degli anni, ecco cos’era quello spirito diverso che potevo ammirare nel panorama, nelle case, nelle strade e nei volti della gente.
Ancora una volta stavamo risalendo una collina. Giunti alla sua cima potemmo guardare dall’altra parte, e lo spettacolo che ci si presentò davanti fu stupefacente. Io, almeno, ne rimasi colpito; Walt, invece, reagì come se non ci vedesse niente di strano. C’erano centinaia di persone, perlopiù giovani vestiti da hippy (non saprei descriverli in modo diverso), che stavano disposti a semicerchio, attorno a un uomo completamente nudo, con una buffa barba e con degli occhiali dalla spessa montatura, che stava declamando una poesia.
Guardai verso Walt per chiedergli spiegazioni, lui, al solito, si limitò a sorridermi.
L’uomo nudo nel recitare i suoi versi si voltava di qua e di là, come per abbracciare tutto il suo vasto uditorio. Quando si girò verso la nostra direzione ebbe un leggero soprassalto, tanto che si bloccò per qualche secondo, poi sorrise e, messesi le mani davanti alla bocca a mo’ di megafono urlo: “Hey Walt, dove punta stasera la tua barba?”
Walt sorrise forte, in modo da farsi udire dall’uomo e dal suo pubblico - che adesso era tutto voltato verso di noi, con mia immensa vergogna vista la mise che sfoggiavo! - e con ampie sbracciate salutò l’uomo. Poi il poeta nudo riprese la sua lettura e noi il nostro cammino.
“Chi era?” chiesi.
“Un poeta futuro” mi rispose Walt.
Proseguendo il nostro cammino ci ritrovammo su quella che sembrava un’immensa piazza, era gremitissima, c’erano migliaia e migliaia di persone; alcune reggevano dei cartelli, tutte erano eccitatissime. Capii subito che stavano assistendo a un evento importante, storico. Da molto lontano, noi, ultimi arrivati e quindi distantissimi dal palco, udimmo un uomo sostenere che aveva un sogno. Walt aumentò la pressione della sua stretta. Mi venne la pelle d’oca a quelle parole. Guardai con gli occhi lucidi Walt e mi accorsi che anche i suoi occhi azzurri erano pieni di lacrime.
Adesso era notte. In lontananza vedemmo un fuoco attorno al quale stavano sedute delle persone, quattro o cinque, non di più. Avvicinandoci di più udimmo che queste persone stavano cantando accompagnati dal suono di una chitarra. Erano belle le parole di quella canzone, parlavano di un mondo più giusto ed equo, della fine di tutte le guerre, della pace. “Immagina” dicevano, “tutta la gente condividere il mondo intero…”.
Walt ed io ci fermammo a una cinquantina di metri da loro, li ascoltammo senza disturbarli e poi proseguimmo il nostro cammino.
Quando il sole spuntò da dietro un alto monte, ebbi la netta sensazione di trovarmi in un posto che già conoscevo. Dopo aver a fondo riflettuto, capii che Walt mi stava riportando a casa, o meglio, a quella casa per me sconosciuta nella quale stavo beatamente dormendo quando il suo urlo mi aveva destato.
Eravamo ormai a dieci metri dall’entrata di quell’abitazione, la porta, ovviamente, non c’era più.
Guardai Walt con la disperazione nel cuore. Dovevamo separarci?
Walt colse il terrore dell’abbandono nei miei occhi.
Mi si mise di fronte, mi strinse entrambe le mani nelle sue e con voce dolce mi confessò:
“Noi due, quanto a lungo fummo ingannati,
…
siamo neve, pioggia, freddo, buio, siamo ogni prodotto, ogni influenza del globo,
abbiamo ruotato e ruotato sinché siamo arrivati di nuovo a casa, noi due,
abbiamo abrogato tutto fuorché la libertà, tutto fuorché la gioia.”.Avevo il viso completamente inondato di lacrime, non potevo accettare che mi lasciasse dopo che mi aveva mostrato tutto quello che mi aveva mostrato.
“Walt, ti supplico, non te ne andare, non lasciarmi solo!”
A queste mie parole imploranti Walt scosse leggermente la testa, mi strinse ancora più forte le mani, mi sorrise e mi disse: “Scrivimi”.
Aprii gli occhi di scatto, come se qualcosa o qualcuno mi avesse impedito di farlo per anni. Davanti a me vidi il soffitto della mia camera. Cercai di capire, mi sentivo letteralmente rintronato. Mi alzai dal letto. Fuori era ancora buio pesto, guardai la sveglia sul mio comodino segnare le due e trenta. “Ancora quattro ore e mezza prima che cominci a suonare per ricordarmi l’inizio di un nuovo giorno” pensai fra me e me. Frastornato decisi di rimettermi a letto. Tornai dunque sui miei passi e mi accingevo a rinfilarmi sotto le coperte quando scorsi sul cuscino una foglia d’erba. Stupito, la presi in mano, me la portai vicina al viso e la rimirai estasiato. Non capivo come avesse fatto quella foglia ad arrivare sul mio cuscino. Rigirandomela fra le dita rividi nitidamente il mio sogno, ricordavo tutto. “Ho sognato Walt Whitman. È una cosa memorabile, non posso tornarmene a dormire come se nulla fosse”. Ed eccomi qui, dunque, seduto in piena notte davanti al computer, a scriverlo per fissarlo in eterno, per renderlo immortale.
Grazie, uncle Walt.
Edited by daniloc78 - 10/3/2013, 10:39