Peyrelebade - Una terra di sogni
Nella calda culla dell’infanzia sono spesso racchiusi i germi del futuro: dalla nascita in poi, il dispiegarsi di un ventaglio variopinto di situazioni evidenzia il carattere di quel che sarà. Sempre esiste qualcosa che lascia un segno o lo fa emergere, un motivo già pronto in tempi antichissimi, solitamente insondabili per le capacità di una mente umana. Dettagli leggeri, fatti delicati come un acquerello o altri più decisi, anche drammatici, delineano un percorso. Così fu anche per Bert, che riconobbe il se stesso degli anni a venire avviluppato nei tralci della natura evocativa e malinconica della sua infanzia. I suoi genitori non potevano occuparsi costantemente di lui e il piacevole tepore della casa degli zii, a Peyrelebade, lo accoglieva per periodi piuttosto lunghi. Nonostante la nostalgia per l’abbraccio materno, Bert sentiva in qualche modo che la vastità di quei paesaggi era provvidenziale per lui, per lenire un’oscura ferita che presentiva nel profondo, latente e sommessa. Ci andava quindi volentieri. E in verità, in quelle terre c’era un vino che scorreva attraverso misteriose fenditure, al di sotto la roccia, e serpeggiava tra le zolle solitarie di una terra generosa, impregnando la sua anima di vita segreta.
La campagna lo invitava continuamente alla scoperta e lui si lasciava condurre volentieri. Il suo istinto già attento e osservatore rinnovava continuamente la meraviglia: avrebbe voluto abbracciare tutto, toccare, afferrare, raccogliere ogni cosa. C’era un angolo in particolare che prediligeva e che in autunno si riempiva di pozzanghere, paludi in miniatura, velate in superficie da iridescenze multicolori. Gli insetti ci navigavano sopra come piccolissimi scafi, granelli neri che scalfivano appena le magie cromatiche racchiuse nei confini un po’ angusti. Bert si accucciava nel bordo, attento a non bagnare le scarpette e, al tempo stesso, assorto. Con un ramo smuoveva il fondo limaccioso e si estasiava per il lievitare del fango, sospeso nel liquido trasparente. Era quello il momento più bello e Bert dosava con cura i movimenti, affinché il gioco di arabeschi durasse più a lungo, ritardando l’attimo in cui l’acqua sarebbe divenuta completamente torbida. Allora sentiva, nella sua mente di bambino, il girovagare vorticoso dei pensieri, gli eventi, le parole, le carezze ricevute prima del sonno, e ancora una preghiera sussurrata, un giocattolo di legno abbandonato sotto la pioggia. Una vaga nostalgia offuscava lo scorrere delle idee e, come la paglia umida tutt’intorno, Bert si avvolgeva su se stesso, per la mancanza di un punto fermo.
L’inverno era triste, anche lì, semplicemente: il divieto di vagabondare e nessuna avventura tra i rami di pino e i campi aperti, negato lo sguardo all’orizzonte infinito, da un sicuro nido di rupe, come un condottiero pronto all’attacco di nemici invisibili. Stava invece chiuso in casa, vicino al camino, e si accontentava di giochi più contenuti, lenti, scoloriti dagli ammonimenti gentili ma fermi della balia. E c’era la cosa peggiore, che Bert non poteva esorcizzare in alcun modo: il terrore delle ombre, vive al chiarore fioco delle candele. Quei mostri neri dallo sguardo penetrante, minacciosi e tremolanti, a volte alati o con strane sporgenze e bitorzoli, restavano sempre inafferrabili, ammantavano i muri d'interrogativi inquieti, tra il rumore del vento gelido e il fermo silenzio dei soprammobili di vetro. E lui li vedeva di nuovo nei sogni, a volte, ancora più terribili, meglio definiti ed enormi, pronti a ghermirlo e portarlo chissà dove.
Alcuni di questi rimasero impressi per giorni nella sua memoria: una testa d’uomo anziano, e il suo corpo come il gambo esile di un fiore, l’espressione implorante nel volto, che sembrava chiedere aiuto a qualsiasi creatura che avesse osato varcare le porte della fantasia. Avvolto come in fasce nell'inconsapevole fuga dalle responsabilità, Bert si tormentava non poco al ricordo di quella visione. E ancora lo atterriva l’incubo del ragno antropomorfo, che zampettava veloce fino al suo orecchio, per entrarci e combinare chissà quale diavoleria. Anche in quell’occasione si svegliò urlando nel cuore della notte, chiamando invano sua madre, madido di sudore e con la gola stretta.
Ma la primavera poteva arrivare e sorprenderlo quando l’aveva già dimenticata, accoccolato nel vano del camino e confortato dal calore della fiamma crepitante. Allora c’era qualcosa di diverso nei raggi di sole che avanzavano tra i ricami delle tende di lino, e tutto era più dolce e luminoso. I campi si coloravano di macchie sgargianti: giallo, verde tenero, viola intenso, rosso. Lo sguardo di Bert si fondeva con l’aria languida e le sue gambe sentivano una nuova forza. Era un levare di note maestose, una musica trionfante che lo accompagnava nella riscoperta del mondo esterno. Già immaginava tante cose da fare: avrebbe condotto verso la costa schiere intere di soldati e, impugnando uno sferzante ramo di quercia, avrebbe vinto i cavalloni lontani ancora una volta, immemore del tempo che passava e di altre sconfitte, più vere, nascoste tra i pensieri. Avrebbe disegnato, in compagnia del suo indomito destriero, i profili delle colline e scovato nidi d’uccelli, tra le radure accarezzate dalla brezza. E proprio così, infatti, passava solitamente il suo tempo all’aperto. In altri momenti invece, se ne stava disteso sulle macchie erbose ad acchiappare le nuvole, che conservava fino a sera in qualche anfratto dell’anima, per addormentarcisi sopra ebbro di giochi e scorrerie, fino all’indomani. Spesso rincasava carico di fiori di campo, con le piccole braccia vellutate dal polline, per farne omaggio alla balia: papaveri, margherite di un unico, intenso colore, narcisi selvatici e crochi minuscoli. C’era qualcosa, nel rinascere della natura, che non sapeva spiegarsi, che lo portava via, in se stesso e per luoghi sconosciuti, appena abbozzati nella sua visione, vibranti di luce come nebulose, magici e rassicuranti, a loro modo. Bert contemplava il paesaggio con uno strano vuoto nello stomaco, ancora incolmabile, che tradiva la sua fame inconsapevole di ideali e purezza.
L’estate era ancora più magnifica: tutto si ricopriva d’oro e non c’era manto di Re che potesse reggere il confronto con lo splendore del grano maturo. Nella calura di luglio Bert si trascinava per i campi vastissimi finché, vinto dalla fatica, si addormentava al sole, in qualche avvallamento incolto o sui mucchi di fieno. Era, il suo, un sonno profondo, nero come il buio, e tuttavia nutriente come un ventre materno. Solo qualche punto luminoso graffiava con gentilezza quel torpore quasi mortale e lo risvegliava, spossato e confuso. E proprio in estate, nella cornice di un agosto particolarmente afoso, accadde un fatto che lo segnò profondamente: mentre camminava, rapito da un segreto dialogo con se stesso, scivolò in una buca nel terreno che qualcuno aveva lasciato scoperta, fossa troppo profonda perché lui potesse risalire in superficie con le sue sole forze. Rimase lì a urlare e piangere per cinque, lunghissime ore, prima che un contadino lo trovasse, svenuto e segnato dai graffi della caduta.
Fu in quegli attimi di crudele solitudine che conobbe una nuova sensazione di abbandono: il dolore della ferita sconosciuta si fece manifesto negli effetti, nelle sensazioni vivide del terrore della morte. Tutto il silenzio d'intere schiere umane, cieche alla luce dei giorni terreni, lo congelò, uccidendo la speranza. Nulla aveva più nome e colore, i pensieri vorticavano velocemente come il fango della sua pozzanghera preferita e anche il cielo estivo splendeva e girava al di sopra, azzurro e profondissimo, senza curarsi del suo richiamo forsennato.
In quell’evento si concentrò il motivo che l’avrebbe guidato nello svolgersi del suo futuro: proprio pochi giorni più tardi Bert, costretto in casa dalle ammaccature della brutta avventura, ritrovò dei vecchi barattoli di colore, ormai secchi, dentro ai bauli della soffitta. Qualcosa in lui si accese, e fu provvidenziale: cominciava impercettibilmente il suo viaggio nella Bellezza, l’esigenza di afferrare forme e colori nasceva lentamente, si risvegliava il seme addormentato dello spirito, delle facoltà creatrici ed eterne, tesoro celato nel cuore di ogni uomo. Tutta la sua persona, da allora in poi, si sarebbe mossa per assecondare quello slancio verso il cielo incantato e misterioso, panacea per qualsiasi male che allontani dall’unità infinita di tutte le cose. Sarebbe diventato l’artista sublime, immerso nell’intima urgenza dell’afferrare la Verità, nella bruma colorata dei sogni.
Nota:
In questo racconto ho voluto immaginare l’infanzia del pittore simbolista Bertrand-Jean Redon [1840-1916], meglio conosciuto come Odilon Redon(spero non si stia rivoltando nella tomba), artista che amo particolarmente. Ho raccolto quindi due o tre elementi essenziali dalla sua biografia (i luoghi e le figure parentali), il resto è pura invenzione, che sconfina nei ricordi della mia stessa infanzia. Per chi volesse, allego un video che ripropone le sue opere più famose (alcune descritte anche nel racconto, sotto forma di sogni o visioni).
VideoEdited by francescadelogu77 - 20/2/2013, 09:15