| Si racconta di una piccola città che a molti tristemente la propria ricorderà, in essa, gli abitanti, che ci fosse la luna o il sole, non facevano mai buon uso delle loro parole: mentivano, ingannavano, terribili tele ordivano e sempre la verità tacevano. I più vecchi e i più piccoli, i padri e le madri, tutti dicevano bugie in casa e per le vie e non erano che ladri. Se incontravano qualcuno che il loro cuore disprezzava, sulle loro bocche un gran sorriso si allargava e gli chiedevano tutti allegri di questo e di quello, sempre celando il nero tranello. Se l’onesto vicino di casa ricco diventava, ecco lesto l’amico invidioso una trama inventava, bisbigliando nell’orecchio ansioso di chi lo ascoltava: sicuramente – confidava- al padre o al fratello aveva rubato o per via aveva incontrato un gran signore e lo aveva accoppato. I piccoli non erano diversi, poiché questo avevano imparato: se un bambino veniva picchiato, nessuno aveva visto chi era stato; se la bella penna della bimba nuova era scomparsa, di certo nella tasca di chi per primo il furto negava se ne stava e tutti partecipavano alla farsa. Non c’era gioia in nessun cuore, nella città della bugia: la felicità degli altri era perdita tua o mia e sempre si mentiva come recitando una dolce poesia. C’era, però, un fanciullo diverso dagli altri, egli aveva nome Abel e non recitava parti. Abel era molto buono ma timido e pauroso come nessuno. Della madre, donna assai retta, che lo aveva lasciato, persino il volto aveva dimenticato, ma teneva bene a mente l’ultima cosa da lei detta: «Rendimi fiera mio piccolo amore, dal cielo ti guarderò e fa che non ti veda mai mentire, il tuo prossimo non dovrai ingannare e il tuo fiato non dovrai sprecare e se qualcuno ti lancia una falsa offesa, non lasciare che la tua anima ne sia lesa e ricorda sempre che è meglio tacere che rispondere cose non vere.» Così, in una città dove chiunque mentiva, il piccolo Abel sempre taceva e il padre lo guardava e scuoteva il capo: «Ahi che figlio mi hai lasciato!», si rammaricava volgendo gli occhi al cielo cupo. Per lui che di mestiere tesseva menzogne, il bimbo silenzioso era la più grande delle rogne, con i suoi istitutori lo lasciava e il piccolo leggeva, studiava e in silenzio sempre da solo giocava. Tutto questo, dal cielo, l’Angelo del Destino aveva osservato e tanto nel suo cuore si era rattristato, ma sapeva di non poter far niente: egli non doveva interferire con il volere della gente. Quella era la regola stabilita dal Creatore e allora l’Angelo sempre guardava giù, piangendo di dolore. Un giorno nella città di cui non dirò il nome, una fanciulla dai boccoli dorati sparì, lasciando i genitori disperati e nessuno volle dir come. Il più influente cittadino di lei si era invaghito e un no, come risposta, non aveva accettato; ora ella riposava sotto tappeti di fiori nel bosco profondo e in città molti sapevano chi era l’autore del fatto immondo, ma nessuno si faceva avanti, benché la verità fosse sospettata da tanti. L’Angelo di più non poté soffrire e nel cuore della notte sulla luna si volle arrampicare, le regole non intendeva più rispettare: prese ad una ad una le stelle dal cielo e si mise a cucire; quando tutte le une alle altre le ebbe legate, le attaccò alle ali di una grande farfalla variopinta. Essa di quella città era la coscienza respinta e dimenticata, dormiva sotto il mare, aspettando di essere svegliata. L’Angelo le disse di volare su nel cielo con la sua coda di stelle e di destare con il suo canto taciturno le tre Streghe del Silenzio Sorelle, perché risorgessero sotto il cielo notturno. Per tutta la terra ci fu un gran tremore, ma l’Angelo infuriato non si volle fermare. Dal ventre sabbioso del bosco odoroso, le vide uscire e le mandò nella città di chi non faceva che mentire. Erano quelle tre ben strane sorelle, avevano lunghi volti bianchi e ai lati del corpo sottili arti adunchi, camminavano a passi lenti e stanchi e gli alberi della foresta chinavano spaventati la loro verde cresta, mentre quelle sibilavano come serpenti. Esse avevano occhi grandi e piatti come lune, gialli del colore delle dune, la pelle pallida coperta di nere rune, le orecchie tagliate e le larghe bocche cucite, lunghi capelli fatti di ragnatele svolazzavano sulle loro teste come tetre vele. Portavano vesti del colore della notte, stracciate e malridotte, tenute insieme a malapena da fili tessuti con i capelli dalle loro chiome caduti. Quando furono giunte in città, albeggiava di già; mentre la gente ancora dormiva, la prima Sorella su un sasso saliva, alle altre Streghe la mano ossuta tendeva e dalla sua bocca cucita un mugolio tremendo si sollevava. Le tre Streghe Sorelle si presero per mano e sollevarono le braccia lunghe verso il cielo lontano, poi, tenendo un cerchio, si misero a volteggiare e senza musica cominciarono a danzare; i loro piedi scalzi, bianchi come la neve, dalla terra si alzarono come nebbia, senza neppure un rumor lieve. In aria tracciavano il loro anello fatato, per togliere alla città ciò che tanto male aveva sempre usato. Dalle loro bocche cucite saliva un lamento e le loro scure vesti e i loro capelli d’argento si fondevano e si univano in unico telo nero, tessuto con le ragnatele del silenzio più vero. Da tutti i letti e da tutti i tetti, luci di mille colori venivano fuori e verso la grande ragnatela che sulla città galleggiava, ogni piccola luce andava, lì si imprigionava e giù più non tornava. Neppure la luce del sole riusciva più a passare e la città nel buio e nel silenzio dovette restare. Le tre Streghe Sorelle, mantenendo il loro cerchio, più in alto nel cielo salirono e sulla ragnatela-coperchio, sedute riposarono. L’Angelo del Destino guardò più da vicino e aspettò che il primo cittadino si svegliasse e del male che aveva colpito la città si accorgesse. Di lì a poco una gran folla si radunò in piazza e la gente gesticolava come pazza. Nessuno poteva più parlare e, nel silenzio, solo nel proprio cuore ci si poteva lamentare, grosse lacrime bagnavano i volti dei cittadini bugiardi che sedevano in mezzo alle strade, guardandosi con occhi morti e giovani e vegliardi facevano no con la testa e tutta la città era tanto mesta. Nessuno capiva cosa fosse accaduto e tutti guardavano in alto verso lo strano cielo di ragnatele intessuto. Spaventati, correvano dentro casa, cercando una risposta per quella strana cosa, ma nessuno sapeva cosa fare e di nuovo ripiombava al suolo e ricominciava a piagnucolare. “Perché? Perché?“, si domandavano senza poter dire una parola. “Quale orribile fato ci ha colpito!”, lamentavano silenziosamente, illudendosi di essere innocenti e di non aver fatto niente. Per giorni e giorni, neri come notti, le strade furono piene di persone che in silenzio piangevano le loro pene e nessuno sembrava capire quale fosse la ragione del malanno, poiché tutti erano troppo occupati a struggersi del danno. Il piccolo Abel da un angolo nascosto osservava, tossicchiò e fece per parlare e si accorse sorpreso che parole pronunciava! Del mirabile prodigio non si era accorto, poiché egli sempre nel silenzio se ne stava assorto. «Chiunque questo sortilegio ci abbia lanciato, di me si è dimenticato!», andava dicendo, parlando piano piano, perché la sua voce non fosse per gli altri motivo di tormento vano. Suo padre lo guardava con gli occhi rossi di pianto e il suo sguardo diceva: “Che incanto è mai questo! Se non posso parlare, non c’è nient’altro che conosco!” Il fanciullo gli sorrideva e una mano sulla spalla gli appoggiava, ma non parlava: ancora troppa paura aveva e in silenzio in pubblico se ne stava. Presto le strade della città furono sgombre: la gente stava rinchiusa, piangendo nelle ombre; la propria voce, penzolante dalla ragnatela, nessuno voleva più guardare e perciò restava a casa, senza capire. L’Angelo sempre aspettava che qualcuno comprendesse la ragione della punizione, ma i cittadini erano chiusi nella loro avversione e pensavano in maniera indecorosa. Il piccolo Abel disse tra sé: «Devo fare qualcosa!» Da quella città non aveva avuto mai niente, ma il suo giovane cuore voleva comunque aiutare quella gente. Giorno e notte studiò, chiuso nella sua stanza, mentre le tre Streghe Sorelle continuavano del silenzio, la danza. Un pomeriggio buio e afoso il bambino trovò una risposta in un libro polveroso. Ad alta voce lesse la possibile soluzione, per liberare la città da quella quieta maledizione: «Se sulla gente lo spirito del Silenzio è scivolato, è perché qualcuno le Streghe Sorelle ha chiamato per porre fine a un grosso peccato. Se una risposta vorrai trovare, nel folto del bosco ti dovrai recare, laggiù per tre giorni e tre notti dovrai camminare e mai ti dovrai fermare, in una grotta buia e abietta dovrai poi entrare e lì sarà la tua voce a doverti parlare.» Il piccolo Abel non era sicuro di voler andare, poiché da un simile viaggio si poteva non ritornare. Il suo cuore temeva la morte, ma egli ricordava le parole della madre “Rendimi fiera…”, pensò e decise di essere forte. Nonostante la paura decise di compiere il percorso, perché la cura per la città facesse il suo corso. Zaino in spalla e libro in mano, uscì dalla città coperta dal buio, camminando piano. L’Angelo dall’alto lo guardava, Abel era l’eroe in cui egli sperava: forse a tutti avrebbe potuto far capire, ma prima doveva vincere le sue paure e nel bosco entrare. Il bambino vide gli alberi torreggiare minacciosi e nel buio gli parvero mostri spaventosi, il libro gli cadde in un pantano, ma egli si fece coraggio e disse spartano : «Su, non aver paura… è solo un miraggio!» e così entrò nella foresta ed iniziò il suo viaggio. Per tre giorni e tre notti camminò spedito senza mai fermarsi e fu persino ardito: nulla temette dei tanti rumori o degli strani odori. «Quel lamento era solo il vento -andava dicendo- e questo verso che sento, è solo l’ululato di un cucciolo che dalla madre vuol esser ritrovato, dovrei esserne contento.» Cammina cammina, arrivò davanti alla caverna, afferrò un grosso legno e ne fece una lanterna, poi prese un gran sospiro e varcò la soglia di quel buio nero. Passò la notte e Abel raggiunse il centro della spelonca, la torcia era ormai spenta, la sua mente era sgomenta e la sua voce era tronca. «Calmati su… ce la puoi fare: hai una città da salvare!», si esortò. Adagio, smise di tremare e poi cominciò a dire: «Ma che cosa dovrei fare, proprio non lo so?» Le parole del libro cercò di ricordare: «La mia voce mi dovrebbe parlare? Come, questo mi potrebbe aiutare? Come?», gridò. Subito la sua stessa voce nella caverna tuonò: «…ome… ome… dì il nome!» «Il nome? Il nome di chi? Di chi stai parlando? Di chi?» L’eco rispose, rimbombando: «… iii…iii… voleva un sì!» Chiese Abel: «Chi voleva un sì? Devo dire il nome di chi voleva un sì… un sì a che cosa?» «sa… saaaa… uccisa!», replicò la voce nella grotta tenebrosa. Abel rimase assorto per un momento, poi risolse il proprio tormento: «Devo dire il nome di chi ha ucciso colei che non si trova? Ma io non lo conosco!» «…scoooo…. bosco!» «Oh… ti prego, aiutami di più mia voce non capisco come riportare a tutti la pace in città!» «…tàààà… verità!», così disse l’eco nell’antro oscuro e Abel capì come salvare di tutti il futuro. La verità era la risposta. Bisognava che non la si tenesse più nascosta. Abel, in fretta, uscì dalla caverna, corse nel fitto del bosco senza temere il buio e senza più lucerna. All’alba del quarto giorno fu sulla via di casa e guardò la città coperta dalla ragnatela nebbiosa, mentre faceva ritorno vide ancora le Sorelle danzare nel silenzio e tutti piangere, preda del quieto assenzio. Abel raggiunse il centro della piazza e gridò, facendo uscire la gente per strada e in terrazza, tutti lo guardavano con tanto d’occhi: egli parlava, mentre loro erano muti a causa dei malocchi! Con accortezza egli descriveva ogni loro bassezza, urlando a squarciagola una verità che sollevava una brezza, la ragnatela si andava sfaldando, le Streghe mugolavano e la gente si andava radunando. Uno dopo l’altro, Abel li indicava; mai aveva parlato e ora lo faceva. Tutta la piazza lo ascoltava, mentre confessava tutte le verità che conosceva e rivelava tutte le bugie che avevano per anni riempito quelle anime non pie: «La bugia è stata la vostra malattia, il silenzio la mia. Forse il mio gridare, le voci vi potrà ridare, ma meglio di come avete fatto in passato le dovrete usare!» La gente lo guardava e ora comprendeva la ragione della propria silenziosa punizione. «Tu… tu che guardi sentendoti al sicuro, ora non puoi parlare, ma di qualcuno hai rubato il domani venturo.» Disse Abel infine, puntando il dito contro l’assassino. «Voi che da sempre tacete o mentite, portatelo qui vicino. Che possa indicare sotto il cielo divino, dove si trova la fanciulla, perché la sua famiglia possa avere una pace tranquilla.» L’uomo scosse la testa, ma presto capì che nessuno lo avrebbe più aiutato: era finita la festa; con gli occhi chini sulle proprie mani insanguinate indicò il bosco che le sue malefatte aveva tenuto celate. Le tre Streghe Sorelle sciolsero il giacchio del loro danzante abbraccio, la voce di Abel che diceva la verità, interruppe le loro abilità. Il silenzio tremava e la grossa ragnatela si logorava. Le Streghe, sibilando, si nascosero di nuovo nella terra, tagliandone il ventre con le loro unghie affilate e andarono ad aspettare un’altra guerra che le avrebbe risvegliate. Una nebbia colorata scese sulla città pentita, era fatta di mille luci e restituì a tutti le loro voci. L’Angelo del Destino fu contento, aveva portato un po’ di giustizia nel mondo, anche se lo aspettava una punizione per la regola che aveva infranto. Da quel giorno, Abel non tacque più; ma gli altri abitanti della città parlarono poco e solo per dire la verità.
Edited by slayercetty - 4/12/2012, 05:44
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