| Reginella e la foresta dei ciliegi C’era una volta un Re, un Re ed una Regina. La Regina morì. E la storia finì? No, perché la misera donna - misera per modo di dire… il suo letto era d’oro e aveva lenzuola di seta…- lasciò una principessina. Fu chiamata Berenice come la madre, ma ben presto fu nota come Reginella. Reginella della disgrazia capitatale non si rese conto. Nonostante la sventura, Reginella ebbe chi l’accudì con sollecitudine, e come tutti i lattanti del mondo, nella regale culla alternava placida una poppata con un sonnellino, inserendo ruttini o altro nel transitare tra le due condizioni.
Chi invece perse la tranquillità fu l’augusto genitore. Il pover uomo - sempre per modo di dire… visto che cingeva una corona d’oro e diamanti….- non solo dovette affrontare il dolore per la perdita di una sposa teneramente amata (la compianta Berenice I, detta Corolla d’oro), ma pure rintuzzare i cortigiani che, visto l’allettante posto vacante, cercavano di affibbiargli una nuova moglie. Insomma, doveva risposarsi a ogni costo per dare l’agognato erede maschio al trono. Tutti lo volevano, la nobiltà, il clero, il popolo intero… Un maschio, un maschio, un maschio…
Il meschino sovrano - sempre per dire, era il signore di un regno vasto e potente - cercò, pure se Re, di fare orecchio da… mercante. Purtroppo, da mane a sera divenne un solo ritornello. Maestà dovete riammogliarvi! Un principino, Sire, un principe! Un vero erede, forte, virile, ardimentoso, che porti gloria al casato! Il nostro re, Sigfrido II (figlio del famoso Sigfrido I, il bellicoso o Uccisore di draghi) soprannominato il Bonario (e questo spiega l’indole del secondo Sigfrido) alla fine, stanco o semplicemente stufo di scocciature, dopo un’eroica e lunga battaglia, capitolò. Del resto, di fronte alla ragione di stato, che poteva fare? Per conto suo, lui avrebbe preferito fare a meno di riammogliarsi: gli era più comodo restare vedovo e lasciarsi consolare ogni tanto da qualche compassionevole dama di corte… Ma chi eleggere per nuova regina? Bonario decise di scegliere quale sostituta la principessa Geretrude, sorella minore della defunta. Era così rinverdita l’alleanza con il reame contiguo, governato da re Auberto IV Mazza di ferro l’Ombroso, un sovrano cui era meglio non far volare la mosca al naso. Il padre di Reginella mandò dunque un suo ambasciatore, Battista Piè leggero, a vedere la candidata. Leggero, di nome e di fatto, rimase colpito dalla dignità, dalla cultura e dall’affabilità della principessa e la chiese in moglie a nome del suo Re e non pensò d’indagare oltre. Non seppe così che dietro quella splendida facciata, la giovane nascondeva abilmente un carattere dispotico, maligno e incline all’intrigo, tanto da guadagnarsi il soprannome di Furbetta. Furbetta, pertanto, lasciò il reame paterno in pompa magna, con somma felicità del regale genitore che si liberava di quella perfida.
Venne il giorno dell’incontro fatale. La principessina con la matrigna e regina, che poi era anche la zia, furono presentate ufficialmente durante un solenne ricevimento. Reginella era solo una bambina ma già mostrava tutta la bellezza della defunta madre, cosa di cui Furbetta era sempre stata gelosa. Quei capelli biondo oro e quegli occhi penetranti e blu, li aveva sempre invidiati e detestati. La cosa che però mandava di più in bestia Furbetta era quel continuo chiamarla Reginella. Reginella di là, Reginella di qua…
Per le strade si cantava perfino una canzoncina in suo onore: Regina, Reginella, quanti passi devo fare, per il tuo Regno arrivare? Regina, Reginella, quanti passi devo fare, per nel tuo castello entrare?
Ma come si permetteva quella plebaglia? Nel Regno c’era posto per una sola Regina e quella era lei!
Per mettere le cose a posto, Furbetta, appena ebbe l’occasione di non farsi notare, cominciò a fulminare la ragazzina con una serie di sguardi cattivi. Di quelli tremendi che avevano fatto scoppiare in singhiozzi più di una sensibile e delicata damigella. Reginella fissò tranquilla la zia Sovrana, poi cacciò fuori la lingua ed emise una sonora e corposa pernacchia che echeggiò per tutto l’aureo salone di rappresentanza. Furbetta arrossì come un peperone, mentre tutti gli sguardi dei dignitari (compreso quello dell’austero Gran Ciambellano, garante dell’etichetta di corte) erano attratti su di lei. «Coraggio riverita madre e zia, fate conto che sia stata io!» trillò con voce innocente la ragazzina con un compito e impeccabile inchino. Furbetta inghiottì il rospo e la figuraccia ma giurò che l’avrebbe fatta pagare cara a Reginella. Oh, come gliela avrebbe fatta pagare!
A Reginella dell’ostilità della regina non importava nulla. Da principio era stata disposta ad amare e rispettare la matrigna, poi saputo del comportamento verso i sudditi, s’era disgustata. La nuova regina s’era svelata superba tiranna che trattava la servitù a capriccio e quel che peggio una spendacciona di prima forza, un pozzo senza fondo, cui il tesoro del regno non sembrava bastare. Reginella amava il suo popolo. Spesso a insaputa di tutti sgattaiolava dalla reggia e vestita da contadinella si mischiava con la gente. Guardava, ascoltava, domandava, si rendeva conto dei loro problemi e desideri. In incognito, tra i campagnoli aveva lavorato, partecipando a vendemmie e mietiture, oppure s’era divertita a sagre e fiere.
Complice in quelle fughe era il suo fedele paggio. Reginella l’aveva scelto tra i rampolli delle famiglie più nobili del regno, che pretendevano quell’ambita carica. La principessina aveva organizzato una merenda nel parco della reggia. I ragazzi erano tutti belli, gentili ed impeccabili, e la riempivano di squisiti complimenti e cortesie. Ma Reginella, memore del detto “In vino, veritas”, versò nei frappè un boccione di liquore, di quello potente, della riserva speciale del padre.
L’effetto fu strabiliante. Il marchesino Ascanio di Rompicollo, balzò su un pony che brucava placidamente nel prato e iniziò a pestarlo di calci. L’intelligente bestia si liberò con una sgroppata e, lasciato l’inopportuno cavaliere a strepitare stizzito sull’erba, se n’era andata altera nelle Reali Scuderie. Berardo, contino di Manopesante, prese a insultare con orride scurrilità un cameriere, reo d’avergli versato una goccia di panna sul farsetto di velluto. Cataldo, baronessino di Torre Fugata, incominciò a piagnucolare petulante del caldo, del vento, del pizzicore del colletto inamidato, per poi squittire di paura quando un grilletto verde gli saltò sulle braghe di raso.
Reginella era schifata: se quella era la futura crema dell’aristocrazia, l’affare si prospettava male per la nazione. Erano solo una manica di violenti, boriosi e pappamolle! In quella comparve Drogone, duchino di Pietra Ribalza; era furente e si teneva la mano su una guancia. «Principessa, invoco giustizia! Un servo ha osato schiaffeggiarmi!» Per quanto disgustosi, quei ragazzi erano suoi ospiti, e Reginella seguì il signorino che procedeva nel giardino con passo bellicoso.
Arrivarono nel roseto, un tempo il luogo più amato dalla mamma di Reginella: sembrava come se vi fosse passato un turbine che aveva straziato i fiori più belli. Sul sentiero c’era un tappeto di petali multicolori, li rastrellava sospirando un ragazzino magro che vestiva modestamente. «Scusa, sei tu che hai colpito il duchino?» interpellò Reginella. Il ragazzo si voltò, doveva avere la sua stessa età. Non si poteva dire una bellezza con quella zazzera corvina e spettinata e il viso lentigginoso ma aveva degli occhi grigi intelligenti, profondi e sinceri. «Vostra Grazia, sì! L’ho visto fare questo disastro per divertimento!» confessò impavido il giovane e la voce gli tremava di sdegno. «E quando gli ho chiesto di smettere, mi ha detto di pensare a pulire perché io sono solo un servo!» Reginella si voltò verso il duchino di Pietra Ribalza e domandò calma: «È andata così?» «Sìiiii» ghignò perfido Drogone, pieno d’aspettativa maligna. Schiaff!! E Reginella indirizzò un ceffone fatto con tutti i sentimenti al vandalo arrogante. Non era fine, ma quando ci vuole, ci vuole! «Hai fatto bene!» sentenziò al piccolo giardiniere, mentre quell’idiota pieno di sé fuggiva frignando con entrambe le guance arrossate. Poi, sfoderando un sorriso malizioso, la fanciulla domandò con tono vellutato al servitorello: «Ti farebbe piacere diventare il mio paggio?»
Naturalmente tale scelta scatenò un putiferio. Un plebeo, paggio! E non era neanche un trovatello! Su di quelli, almeno, ci si poteva fantasticare un’origine blasonata. Bastava pensare a quello raccolto dalla figlia del Faraone in un cesto sul Nilo: divenne il liberatore del suo popolo. E quella coppia di gemelli allattati da una lupa? Erano risultati figli di un Dio e nipoti di Re e fondarono una città potente. Per non parlare di quel figlio di nessuno che con la guida di un mago, tirando fuori una spada dalla roccia, aveva provato la nascita nobile, diventando così un Re mitico...
Invece il giovane giardiniere era l’ultimo discendente di una stirpe chiaramente contadina. Zappaterra erano i genitori, i nonni e i bisnonni. E se i topi non avessero rosicchiato i registri parrocchiali, forse si sarebbe potuto risalire fino a quando Adamo zappava ed Eva filava… Niente nobiltà, se non l’ostinato amore per la terra e la lotta contro siccità, grandine, gramigna ed esattori delle tasse famelici. Ma Reginella seppe tener fronte al regale padre e alla corte. Usò tutti i modi, pure quelli subdoli che di solito detestava, come l’imbronciare le labbra e lo sbattere gli occhi deliberatamente lacrimosi e supplici… Infondo, in un libro aveva letto che nel comportamento di un vero principe, il fine giustificava i mezzi…
Così il servitorello, si chiamava Fernando, divenne paggio. Paggio Fernando lo fu per poco. Catapultato dalle stalle (era addetto al reale concime delle reali scuderie per i reali giardini) alle stelle, il ragazzo si rivelò un ghiottone. E quando mai aveva gustato le bontà che servivano sulla tavola della principessa? Fu soprannominato Confettura, la cosa di cui era più ghiotto, poi ingentilito in Confitù. Ma a Reginella Confitù andava bene: meglio un compagno amante della buona tavola che della violenza. E poi grazie a lui aveva imparato ad arrampicarsi sugli alberi, nuotare nei fossati, fare fischi incredibili e la famosa pernacchia con cui aveva deliziato la matrigna.
Venne il dodicesimo compleanno di Reginella. E scattò la trappola che la perfida regina Furbetta aveva preparato. La festa era quasi alla fine, quando apparve un cocchio favoloso. Altro che la carrozza realizzata dalla fata madrina d’una bisavola di Reginella trasformando una zucca! Questo era un ultimo modello biposto decappottabile extra lusso sport, color rosso fuoco con rifiniture cromate, ruote da corsa super molleggiate e sedile ribaltabile in vera pelle di drago. Lo trainava una coppia di scalpitanti struzzi che garantivano trenta miglia buone di percorrenza con appena una manciata di carrube e chiodi bullonati. Una vera meraviglia! Il sogno d’ogni ragazza o ragazzo del regno! Impaziente Reginella, mentre la matrigna le lanciava un untuoso sorrisetto, con il fido Confitù alle redini, balzò sul cocchio e via!
Estasiati, i giovani percorsero i viali del parco a tutta briglia. Ah, l’ebbrezza della velocità! Il vento nei capelli, il senso di libertà! Appena fuori dalla vista della corte, Reginella si mise lei alla guida. Mica solo Confitù si doveva divertire! E poi lei ci sapeva fare. All’ultima Sagra delle Pentole Magiche aveva vinto il Rodeo dei Somari parlanti! I ragazzini s’inoltrarono in una parte dei giardini mai conosciuta, anzi furono gli struzzi che ve li condussero, senza che se ne avvedessero. Alla fine di un viale, videro un gran cancello dietro il quale si trovava un’incredibile foresta d’alberi di ciliegi che presentavano magicamente insieme fiori e frutta. E che ciliegie! Rosse, grosse, da far venire l’acquolina al vederle! D’un tratto si scoprirono affamati e assetati. Confitù urlò felice: «Reginella ora ti porto una cappellata di ciliegie!» Solo quando vide l’amico infilarsi tra le sbarre e correre a raccogliere i succosi frutti, alla fanciulla sovvennero le raccomandazioni fatte durante l’ora di Geografia e pericoli magici del Regno dalla sua istitutrice, la signorina Ademia Rompini. La Foresta dei Ciliegi era incantata! Chiunque v’era entrato, non ne era più uscito! Si mormorava d’orchi cannibali… Invano il padre di Reginella aveva cercato di stringere l’inferriata o di piantarci davanti i terribili rovi a tripla spina, ricordo della siepe che cingeva il castello della principessa Aurora detta Dolcisonni, prozia da parte di madre di Reginella, famosa per un pisolino durato cento anni. Tutto inutile, un sortilegio faceva sparire gli accorgimenti...
Reginella gridò a Confitù di tornare indietro ma il ragazzo era come sordo, preso solo a raccogliere ciliegie a piene mani e a masticare. Appena scorgeva frutti ancora più succulenti, buttava quelli già raccolti per cogliere i nuovi, inoltrandosi sempre di più nella fatale foresta. Il terribile “Una ciliegia tira l’altra” l’aveva totalmente stregato! Confitù scomparve, come inghiottito dal diabolico frutteto. Reginella rimase incerta: che fare? Correre dal regale papà? Istintivamente si buttò nel bosco.
La principessa vagò a lungo per la macchia di ciliegi. Chiamò inutilmente Confitù fino a sgolarsi poi, stanca, s’addormentò ai piedi un albero fiorito. Si svegliò all’alba sentendo avvicinarsi un tramestio. Un lupo? Un brigante? Accidenti, avrebbero avuto pane per i loro dentacci! Afferrato un grosso ramo nodoso trovato lì vicino, Reginella sganciò una tremenda mazzata verso l’ombra che vedeva profilarsi contro. «Aia! Ma che cavoli!» «Confitù!» «Reginella!» «Sono venuta a salvarti, Confitù!» «Per salvarmi?! E mi prendi a bastonate?» «Non sottilizziamo, Confitù, adesso!» replicò Reginella, decisa.
Intanto il sole s’era alzato, illuminando una radura dove si vedeva una capanna sorretta da un enorme paio di zampe di gallina. «Non sembra la casa d’una strega, di solito sono di marzapane, cioccolata e zucchero!» balbettò Reginella. La pancia di Confitù, fece un brontolio. «Temo che sia l’isba d’una Baba Jaga!» disse preoccupato. Lui era sempre stato esperto in Storia delle genti e delle migrazioni dei popoli fatati. «Ma è una strega dei regni dell’Est!» controbatté la ragazzina. «E perché, le streghe non possono emigrare pure loro?» In quella la casetta si girò sulle sue zampe e dalla porta sbucò una vecchietta, di quelle linde che te le immagini a fare la calza per i nipotini davanti al caminetto o a fare la pubblicità per un detersivo. «Salve, bimbi belli, verreste a pranzo da me?» I ragazzi avrebbero voluto fuggire, ma dietro di loro erano apparsi sei gattacci neri che buttavano come fuoco dagli occhi e soffiavano drizzando pelo e coda. E decisero d’accettare l’amichevole invito.
La vecchia offrì loro crostata di ciliegie, ciliegie candite, tartine con marmellata di ciliegie, ciliegie sotto spirito, gelato di ciliegia, sciroppo di ciliegie e liquore al maraschino. «Basta ciliegie, signora, non ne posso più!» balbettò Confitù, terreo. «Vorresti dell’altro, caro? Allora prendimi la teglia nel forno!» fece suadente la strega. «Signora, la prego, cucini me! Lasci stare Confitù!» «Che dici Reginella! Se qualcuno deve finire arrosto, quello sono io!» «Calma ragazzi, ma che idee vi vengono? I soliti pregiudizi razziali sulle streghe! Io sono vegetariana! Mi sono trasferita apposta da queste parti per ragioni di salute! Nel forno c’è solo un timballo di rigatoni al sugo con piselli, funghi e mozzarella!» «E con tanto parmigiano?» chiese Confitù con un sorriso a tutti denti. «Naturalmente, caro!» disse la strega.
Quando tempo dopo i ragazzi ricomparvero, la sorpresa della corte salì alle stelle. Ormai erano creduti morti, cotti, mangiati e già belli e digeriti. Il Re, poi, l’avevano dovuto bloccare, perché voleva precipitarsi nella foresta in soccorso della figlia, ma i ministri l’avevano dissuaso. Che avrebbe fatto il paese senza di lui? Adesso Bonario, al colmo della felicità, avrebbe desiderato togliere il lutto al Regno. Ma non lo poté fare perché intanto la regina morì. La matrigna aveva voluto indossare un elegante abito nero in seta finissima molto scollato. Il freddo preso giorni prima con quelle leggere gramaglie nella cattedrale di S. Algido Battidenti, durante la commemorazione funebre per Reginella, le era stato fatale. Prese la polmonite e quando seppe del ritorno di Reginella, il cuore le mancò dalla stizza. Al suo funerale i cortigiani dovettero far largo uso del succo di cipolla per mostrare un cordoglio ben lungi dal provare. Dopo le esequie, prima che ricominciasse il ritornello del matrimonio e dell’erede maschio, re Bonario emise un decreto dinastico: pure le femmine avrebbero potuto accedere al trono. E così Reginella, un giorno, sarebbe diventata regina! La ragazza, sentendo che alle sue spalle già si stava stilando un elenco di giovani nobili quali possibili aspiranti a principe consorte, corse ai ripari. «Padre, ma non premiate Confitù? È entrato nella foresta con sprezzo del pericolo e mi ha liberato da Abelarda, la strega mangia - mangia!» «Veramente, io non ho…» fece il paggio. Confitù avrebbe voluto svelare che l’eroina nel gettarsi nella foresta al soccorso d’un paggio goloso, era stata lei, la principessa. Inoltre, la strega era innocua, una cara amica dei gatti. Per il resto, tutte dicerie dovute a fantasie, solo perché nella selva alcuni tipi v’erano crepati, sì, ma per indigestione, a forza di mangiar ciliegie a crepapelle. Il ragazzo fu zittito da un calcetto rifilatogli nello stinco da Reginella. «Giusto, figliola, lo farò cavaliere!» dichiarò, intanto, re Benevolo. «Solo cavaliere? Papà, mi deludi!» rimbeccò Reginella. «Allora barone!» «Ma almeno marchese! Come quello che sposò la prozia, il marchese di Carabà, detto il Gattacicova» Così Confitù fu eletto marchese di Gran Bignè. Di come, poi, Reginella trasformò la Foresta dei ciliegi in Parco del Ghiottone ed elesse a piatto nazionale la crostata di ciliegie, beh, questa è un’altra storia…
Stefania De Prai Sidoretti
|