| E il sole tramontò e si offuscò dietro la valle. E, in un castello, vivevano due bambini: Marco e Lorenzo. Tanti anni or sono, in una piccola città attorno al nulla, era stata costruita un’enorme fortezza. Dovete sapere che questo edificio aveva ben venti piani! Se pensate che un palazzo dei tempi nostri ne ha cinque, immaginate quanto doveva essere imponente. Ed era così largo, ma così largo, che se un bambino usciva fuori e si metteva in un punto qualsiasi del muro, non riusciva a vederne la fine in nessuna direzione. Un bambino, sì. Difatti questa reggia non era residenza di principi o re: era un orfanotrofio. Lì venivano portati tutti i bambini che avevano perso i genitori e – badate bene – anche quelli che li avevano fatti disperare, per punizione. Quanti bambini vivessero nel castello non lo sapeva nessuno: ogni settimana, difatti, da tutte le città vicine arrivava un vecchio treno sferragliante che portava sempre qualche nuovo ospite. Non si stava male, comunque. I piccoli avevano a disposizione tante stanze per giocare, anche se molti non si erano mai mossi dal primo piano per paura di perdersi all’interno del castello. Ma questo era un problema dei più pavidi, non credete? Tutti avevano un comodo letto di paglia dove riposare la notte. Accanto a esso, un otre di legno pieno d’acqua per lavarsi il viso al mattino, e un martelletto. Eh sì, nelle serate d’inverno, capitava che l’acqua si congelasse nottetempo e quindi si rendeva necessario avere un attrezzo per rompere il velo di ghiaccio in superficie e arrivare all’acqua, all’alba. E poi si mangiava bene. Il pasto quotidiano veniva servito nella stanza più grande del castello – o forse la più grande del primo piano, non so – e per tutti c’era zuppa a volontà. Capitava, è vero, che alcuni giorni non c’era pane duro a sufficienza, e quindi essa risultasse un po’ più liquida, ma ai bambini piaceva tanto lo stesso, visto che non ne rimaneva mai nemmeno una goccia. Insomma, dicevo, si viveva bene. Immaginate tutto questo spazio soltanto per dei bambini e per pochi educatori: suor Nerina e padre Gaetano che vivevano sempre al castello, e la signora Maddalena, addetta alle pulizie, che veniva tutti i giorni per riassettare le stanze più frequentate.
Marco e Lorenzo erano due fratellini di otto anni. I loro genitori non c’erano più e lo zio, che non poteva prendersi cura di entrambi, aveva deciso di non separarli e li aveva accompagnati personalmente presso il castello di padre Gaetano, che aveva fama di essere luogo ben idoneo a educare e far crescere due bambini della loro età. I due si erano trovati, però, inspiegabilmente a disagio. Non avevano fatto amicizia e se ne stavano sempre in disparte, tanto che quasi tutti gli altri orfanelli ignoravano come si chiamassero, visto che non avevano mai rivolto loro la parola. Come ogni notte, pure quella in cui successero gli avvenimenti qui narrati, Marco e Lorenzo stavano dormendo nella stessa stanza, la più piccola. Sceglievano quella perché era così piccola, ma così piccola che a stento c’era posto per un bambino solo. In realtà era uno sgabuzzino per le scope, ma a loro piaceva immaginare che fosse la casa dove vivevano da soli, e così si rintanavano lì dentro tutte le notti, per stare appartati e vicini, con buona pace di suor Nerina che ormai non cercava neanche più di convincerli a tornare nello stanzone insieme agli altri. Marco si svegliò di scatto, ansimando. Nel buio dello sgabuzzino, gli sembrò di vedere qualcuno. Trattenne il fiato per qualche secondo, poi trovò un cerino per accendere la candela che teneva a portata di mano: nello stanzino non c’era nessuno, soltanto il fratellino che continuava a dormire. Provò a chiudere gli occhi nuovamente, ma non riusciva a riprendere sonno. Allora cercò un altro cerino e lo accese. Forse destato dalla luce, o forse dal rumore che produceva Marco agitandosi nel suo pagliericcio, anche Lorenzo aprì gli occhi. “Che cosa succede? Perché hai acceso la candela?” domandò al fratello. “Non so. Mi era sembrato che ci fosse qualcuno…” “Qui dentro? Chi vuoi che ci venga? Chiudi gli occhi e dormi” concluse quasi scocciato, riaddormentandosi all’istante. Ancora una volta provò a girarsi e riprendere sonno, ma una brutta sensazione gli ronzava in mente. Così, per la terza volta, accese un cerino. Lorenzo non c’era più. Davanti a Marco, tutta vestita di nero come sempre ma con un cappello a punta al posto del velo bianco, suor Nerina lo guardava in piedi con gli occhi spalancati, le unghie lunghe e affilate, la veste logora e sporca di polvere e con ai piedi un paio di zoccoli. In mano teneva una ramazza. Marco non ebbe neanche la forza di urlare dallo spavento, prima che la monaca dicesse, ridendo: “Ah ah ah! Magia magia, Lorenzo non c’è più. Se lo vuoi rivedere, prima che il sole sorga devi trovare lo scheletro di mastro Vito, rimasto da qualche parte all’interno del castello. Solo così potrai rivedere Lorenzo. Coraggio, hai solo quaranta stanze dove cercarlo. Quaranta stanze… a piano! Ah ah ah! Corri, il tempo passa” concluse la megera, e svanì nel nulla. Marco si riebbe quasi subito. Uscì dallo sgabuzzino e si precipitò nella stanza di padre Gaetano. Bussò all’impazzata, ma nessuno rispondeva. Allora si fece coraggio ed entrò lo stesso. All’interno, però, non c’era nessuno. Sgomento, corse nello stanzone dove dormivano tutti. Avrebbe raccontato la faccenda agli altri bambini, e loro lo avrebbero aiutato di sicuro. Entrò, ma neanche lì c’era nessuno, e in più la candela stava quasi per consumarsi del tutto. Iniziò a piangere, seduto per terra. Quando i singhiozzi furono finiti, si rialzò e andò in cerca di un altro lume. Lo trovò in cucina, insieme a dei fiammiferi. Prese tutto e cominciò ad avventurarsi per le stanze del castello, capendo che non poteva fare altro che cercare di capire dove fossero finiti tutti quanti. Le scale di congiunzione tra un piano e l’altro gli facevano davvero paura. Non s’era mai avvicinato a esse, e ora invece era costretto addirittura a salirle. Mentre rifletteva su quanto fosse saggio assecondare la minaccia di suor Nerina la strega, ecco che dietro di lui sentì dei passi. Si girò e vide padre Gaetano che avanzava verso di lui. “Padre, padre, suor Nerina ha rapito mio fratello” disse singhiozzando. “Ah sì? E ora ce lo mangiamo. Ah ah ah” rispose truce quell’individuo. Una volta che si fu avvicinato alla luce, Marco lo vide bene: era un orco con la testa enorme, anche se somigliava molto a padre Gaetano. Aveva le orecchie a punta, gigantesche; la mandibola destra spostata un bel po’ verso sinistra, e due denti gli fuoriuscivano dalla mascella; pochi capelli in testa, un occhio guercio e tantissimi peli sulle braccia che stavano per afferrarlo. Marco emise un urlo mozzato e salì su per le scale senza nemmeno voltarsi. Quando fu arrivato al quinto piano, si guardò indietro e si accorse che l’orco non l’aveva seguito.
Aveva saltato quattro piani di ricerche, ma qualcosa gli suggeriva, dentro di sé, che se doveva trovare Lorenzo gli conveniva guadagnare tempo e cercarlo ai piani superiori. Non aveva idea di quante ore mancassero all’alba; di sicuro aveva dormito poco, ma non poteva essere certo che questo corrispondesse all’esser passato poco tempo. Mentre pensava a tutto ciò, si sentì chiamare: “Marco! Marco!”. Avanzò di qualche passo e riconobbe la sagoma di qualcuno che conosceva. “Signora Maddalena – urlò piangendo – meno male che è qui! Non sa che cos’è successo…” “Vieni qui e raccontamelo” urlò lei all’improvviso compiendo un balzo felino verso di lui. Era tutta vestita con bende bianche che la ricoprivano da capo a piedi. A Marco non occorse molto tempo per capire che la signora Maddalena era una mummia. “Vieni da Maddalena” gridava inseguendolo, mentre lui scappava come un forsennato piangendo a dirotto. Aveva perso il conto delle rampe di scale salite e così, adesso, non sapeva neanche più a che piano si trovasse. Cominciava seriamente a credere che non avrebbe mai più rivisto l’adorato fratellino. A questo punto, si disse, tanto vale arrivare fino all’ultimo piano, e poi farli tutti a ritroso. Riprese a salire le scale, contando gli scalini per restare sveglio: il sonno cominciava a sopraffarlo. Arrivò così alla fine della scalinata. Lunghissimi corridoi bui e gelidi si presentavano davanti a lui, e Marco non sapeva proprio da che parte cominciare. Avanzò titubante e vide, per terra, una ciocca di capelli. Pensò di essere arrivato nel posto giusto, si fece forza e cominciò le ricerche. Le porte erano pesanti e cigolanti. Ogni volta che ne apriva una essa provocava un rumore sinistro terrificante, e i nervi del povero bambino erano ormai a fior di pelle. All’interno, grandissime stanze piene di oggetti strani, mobilia tarlata e panni polverosi a ricoprire cassettiere, tavole, quadri… Dopo l’esplorazione di una stanza, e di un’altra, e di un’altra ancora e ancora, era giunto all’ultima del corridoio. Temendo di trovare il peggio visto che era l’ultima, aprì la porta con molta paura, piano piano. Subito sentì un velocissimo battito d’ali. Allora spalancò la porta di colpo e tantissimi pipistrelli neri volarono fuori dalla stanza, mentre Marco scappava via urlando di terrore. Era tornato alle scale, ma sapeva di non aver controllato che cosa ci fosse all’interno di quell’ultima stanza. Non c’erano alternative: doveva ritornarci.
Avanzava rasente al muro, con la candela spenta per non consumarla del tutto e gli ultimi due cerini in mano, il cuore gli batteva all’impazzata. Toccò qualcosa di viscido, senza sapere che era il rettile che più lo terrorizzava in assoluto, e la candela gli cadde dalle mani per la sorpresa e la paura. Dovette accendere uno degli ultimi due fiammiferi rimasti per ritrovarla: era per terra in una pozza. Senza chiedersi che cosa fosse quel liquido, raccolse la candela e avanzò deciso; nemmeno si domandò che cosa lo avesse fatto trasalire. Il serpente non lo inseguì e se ne tornò sul muro, un po’ più in alto per non farsi disturbare nuovamente, perché al prossimo scocciatore un morso sul collo non l’avrebbe certo risparmiato nessuno! Marco arrivò alla stanza di prima. La porta era ancora aperta, spalancata. Non un rumore proveniva dall’interno. Entrò titubante, accese il fiammifero e vide una poltrona girata di spalle rispetto alla porta. Deglutì, intuendo che potesse esserci qualcuno seduto, e vi si avvicinò. Comodamente sopra, coi piedi appoggiati a uno sgabello, c’era un uomo che aveva smesso di essere tale da almeno cinquant’anni. Qualche lembo di pelle era ancora visibile sopra le ossa di quello scheletro certamente non conservato benissimo. Una cordicina pendeva dal suo collo e un cartello legato a essa diceva: ‘Frantuma tutte queste ossa per far sì che tutto ciò non sia mai successo. Ricorda: hai tempo fino al sorgere del sole’. Marco pianse ancora una volta. Provava orrore e raccapriccio soltanto all’idea di avvicinarsi a quell’essere disgustoso, figurarsi se aveva voglia di frantumargli le ossa una per una. Eppure il cartello appeso al collo dello scheletro non lasciava adito a dubbi… Cercò nella stanza qualcosa che potesse aiutarlo: di sicuro era impensabile riuscirci a mani nude. In un angolo del pavimento, la luce della candela fece riflettere qualcosa. Marco si avvicinò e vide un martello nascosto da una moltitudine di ragnatele, con tanti di quei ragni sopra che era impossibile provare a contarli tutti. Tra streghe, orchi, mummie, pipistrelli, scheletri e ragni (e fortuna che non s’era accorto del serpente!), le sue paure erano ora tutte concrete. Doveva superarle proprio tutte per dimostrare il proprio amore verso il fratello? A quanto pareva, sì. Si fece coraggio ancora una volta, guardò bene dov’era il martello, chiuse gli occhi e andò diretto con le mani dove il cervello lo guidava. Rimase avvolto dalle ragnatele ma afferrò il martello e, urlando, cominciò a scuoterlo per cacciare via tutti i ragni che vi erano rimasti sopra. Quando gli sembrò che non ci fossero più aracnidi sul martello, si pulì per bene le mani piene di ragnatele e si avvicinò allo scheletro che giaceva in poltrona. Lo guardò con gli occhi gonfi di lacrime e disse: “Spero soltanto che tu sia di plastica, come quello dell’asilo dove andavo”. Cominciò a colpire la testa: tolta quella gli faceva tutto meno impressione. A ogni colpo che sferrava su mastro Vito, chiedeva scusa e recitava il requiem aeternam. Marco era sfinito. Tra lacrime e sudore era fradicio, moriva di sonno e non capiva nemmeno che cosa ci facesse con un martello in mano, come un pazzo, però sapeva di dover riuscire a portare a termine la propria missione prima che il sole sorgesse. Un raggio filtrò dalla finestra mentre il cielo schiariva.
E il sole tramontò e si offuscò dietro la valle. E, in un castello, vivevano due bambini: Marco e Lorenzo.
Edited by vivonic - 7/12/2012, 00:19
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