| MAI CONTENTI di Giuseppe De Micheli (alias mezzomatto)
Nel paese del dove, al tempo del quando, viveva Re Benamato chissàquantesimo, un re che aveva molto a cuore il benessere del suo popolo. I suoi gastaldi giravano incessantemente il paese e mettevano riparo alle situazioni di ineguaglianza e di disagio. I ricchi brontolavano per le tasse da pagare e i poveri per il lavoro da fare al fine di riparare i danni da alluvioni, frane, terremoti eccetera. Il Re non si decideva a dare al suo regno una Regina e, di conseguenza, un erede. Tutti i sabati indiceva una grande festa alla reggia, alla quale invitava a turno tutte le fanciulle nubili del reame, nobili, borghesi o contadine che fossero. Faceva un giro di danza con ogni dama, ma alla fine concludeva che nessuna di esse era la sua anima gemella. E il popolo, ricchi e poveri, mugugnava temendo chissà quali disastri in caso di morte del Re senza successori. Il regno era frequentato anche da una fata chiamata da tutti Generosa perché il suo castello appariva d'improvviso nei paesi colpiti da carestia. Nei suoi saloni erano perennemente imbandite delle mense sostanziose alle quali tutti potevano accedere senza dare nulla in cambio. Un'antica ostilità, di cui nessuno ricordava le cause, divideva la Casa Regnante dal lignaggio della fata, così che fra le due stirpi non vi era più nessun contatto. Appena il Re compariva sul luogo del disastro la fata spariva assieme al suo castello, lasciandogli sul gobbo il compito di sanare la situazione a colpi di tasse e di lavoro. Un brutto giorno nei campi coltivati di una delle regioni del regno comparve il folletto Trangugione che cominciò subito a mangiare le radici dei vegetali, a prosciugare i canali d'irrigazione e a succhiare la linfa vitale degli alberi. In breve una fame nera come non si ricordava a memoria d'uomo colpì l'intero paese. Apparve il castello di fata Generosa. Questa volta re Benamato chissàquantesimo non volle irritare la fata arrivando con tutto il suo seguito; tentò di entrare nel castello in incognito, mescolato alla folla dei contadini, sperando d'incontrare la fata e convincerla a collaborare con il governo nell'affrontare le emergenze, ma appena si presentò sotto le mura il portone si chiuse, il ponte levatoio si sollevò e una voce tuonò dalla torre: “Chi è quel damerino in abiti di corte che vuole entrare? Lui ha soldi abbastanza da comprarsi il cibo. Qui sono accettati solo gli umili e i diseredati”. Il Re andò al mercato, comprò gli abiti più lerci e sgualciti che trovò, e l'indomani si ripresentò al castello. Ancora una volta l'ingresso fu sbarrato e la voce dalla torre tuonò: “Chi è quell'uomo dalle mani curate e pulite? Qui sono accettate solo mani rese callose dal lavoro”. Per tre giorni il Re lavorò di vanga e di badile, estirpò sterpi e costruì muretti di pietra a mani nude. Quando ritenne di avere calli e piaghe a sufficienza si ripresentò alla porta del castello e ancora una volta fu respinto: “Chi è che si presenta a pancia piena a chiedere la carità di un pasto? Torni quando il suo stomaco si contrarrà per i crampi”. Il Re digiunò per tre giorni e alla fine tornò al castello; sul ponte levatoio quasi sveniva dalla fame. Questa volta le porte rimasero aperte e Benamato chissàquantesimo poté accedere al salone della mensa, assieme alla folla di contadini. La fata conosceva esattamente i bisogni di ciascuno: i cicciottelli ricevevano solo un crostino con speck, maionese e capperi; chi era riuscito a fare colazione doveva accontentarsi di una spaghettata alla matriciana; quelli a digiuno completo consumavano un pasto di sette portate. Il Re ricevette un intero montone arrostito allo spiedo con contorno di patate al forno. Prima di lasciare il castello i contadini si presentarono tutti alla fata e la ringraziarono scappellandosi, genuflettendosi e baciandole la mano. Il Re, aspettando che si esaurisse la fila, ripassava mentalmente il discorso che si era preparato per convincerla a collaborare. Fu l'ultimo a omaggiarla, ma come sollevò lo sguardo dopo l'inchino e il baciamano rimase folgorato: Fata Generosa era la più bella donna che avesse mai visto. Se ne innamorò all'istante, cadde in confusione, non riuscì più a ricordarsi il motivo della sua presenza lì, e farfugliò una sconclusionata dichiarazione d'amore concludendola con la richiesta di matrimonio. La fata scoppiò a ridere: “Ma non sai che tra i nostri casati c'è inimicizia eterna? Da quando Benamato I s'infilò nel letto della mia antenata Gerualda abbiamo rotto tutti i rapporti con la Casa Reale. Il tuo tris-tris-tris-eccetera-avolo si era fatto dare da Fata Morgana il filtro della mimesi, trasformandosi in tenero gattino. Gerualda lo mise a dormire con sé, e nella notte si trovò ad abbracciare un Re invece che un micetto. Per fortuna conosceva le arti marziali e con la presa dell'anaconda lo immobilizzò prima che potesse combinare un guaio e lo buttò fuori dal castello. Da allora non ci furono, e non ci potranno più essere, rapporti fra noi”. E siccome il Re continuava a professarle il suo amore, gli diede una fiala: “Tu hai bisogno di una Regina. Questa ampolla contiene un elisir d'amore. La donna a cui lo regalerai, se lo berrà in tua presenza, diventerà così attraente ai tuoi occhi che non potrai fare a meno di innamorarti. Auguri e figli maschi”. Il Re pensò subito: “Lei me lo ha dato. Se lo bevo qui, dinnanzi ai suoi occhi, si innamorerà di me”. Detto e fatto trangugiò l'intera ampolla. E istantaneamente si trasformò in rospo. “Ah, ah!” rise Fata Generosa. “Lo sapevo che non potevo fidarmi dei Benamati. Ho aggiunto all'elisir d'amore una pozione di trasformazione. Non disperarti però. Conosco la formula magica per farti tornare uomo. Quando vorrò la reciterò, e tu tornerai Re.” E raccoltolo fra le mani lo gettò, dalla finestra, nel fossato. “Va e divertiti con le rospe che non potranno fare a meno di innamorarsi di te”. Poiché quell'elisir d'amore funzionava solo fra esseri della stessa specie, nello stesso istante in cui si trasformava in rospo l'amore per Fata generosa l'abbandonò e si ricordò di quello che voleva dirle. Zompando su e giù dal bordo del fossato alla finestra il Re-Rospo riuscì a comunicare il suo messaggio: “Fata, tu sei generosa con il popolo, ma lo vizi. Sazio del tuo cibo esso non lavora più e non è quindi capace di scacciare il Folletto Trangugione”. La fata lo buttò giù dal davanzale con un colpetto della mano, ma il Rospo-Re vi balzò nuovamente sopra e continuò la sua concione: “Per allontanarlo è necessario rivoltare tutto il terreno per almeno due braccia di profondità, e...”. La Fata lo ributtò nel fango, chiuse la finestra e si ritirò nelle sue stanze. Ma le parole di Benamato non la fecero dormire: forse il re aveva ragione e lei viziava troppo il popolo, che così s'impigriva. L'indomani affisse sul portone del castello un avviso: “La mensa è chiusa e riaprirà quando i campi saranno rivoltati per almeno due braccia di profondità”. I contadini brontolarono e si rifiutarono di lavorare. Ma alla fine le budella si attorcigliarono dalla fame e ben dopo il tramonto i contadini cominciarono a rivoltare la terra alla luce delle fiaccole e il mattino dopo tornarono al castello implorando cibo. La Fata li accolse facendo imbandire le mense. Il Re-Rospo si era intrufolato approfittando della confusione ed era riuscito ad avvicinarsi a Generosa. Le disse: “Ti prego, fammi tornare uomo. Non ce la faccio più a governare i batraci... e le batrace.” “Ah! Un rospo” urlò la fata. “Ributtatelo nel fosso”. Ma mentre i servi lo portavano via il Re fece in tempo a dire: “Non basta rivoltare il terreno, occorre anche irrigarlo, quindi dovete riaprire i fontanili, riparare le condotte e i canali d'irrigaaa...” Lo splash del suo ritorno al fossato fu coperto dai gracidii entusiasti dei suoi nuovi sudditi che lo stavano aspettando con amore. “Il rospo ha ragione” disse la Fata ai contadini. “Dovete ripristinare l'intero sistema idrico se volete che Trangugione se ne vada.” I contadini brontolarono, ma, memori della fame, lavorarono alacremente tutto il giorno e a sera tornarono al castello per la consueta cena. Con loro entrò anche il Rospo-Re che riuscì a dire a Generosa, prima che i servi lo ributtassero nel fossato: “Non basa rivoltare i campi e irrigarli, occorre anche rigenerare la linfa delle piante. Dovete tagliare le gemme di alberi sani e innestarli su quelle disseccate da Trang...”. Un altro splash e un tripudio di gracidii appassionati concluse il suo volo dalla finestra. “Avete sentito cosa ha detto il rospo?” disse la fata ai contadini. “Domani correte a tagliare le gemme dagli alberi di una regione ancora incontaminata e innestatele sulle vostre”. Le proteste salirono alle stelle, ma la Fata fu irremovibile, le porte del castello rimasero chiuse finché gli elfi di terra non tornarono a dirle che Trangugione aveva lasciato la regione. Allora capì che il Re aveva completamente ragione, che non si può essere troppo magnanimi e che la generosità troppo prolungata diventa dannosa. Si affacciò alla finestra e chiamò: “Benamato, Benamato, ritorna. Il mio compito qui è finito, ma prima di andarmene romperò l'incantesimo e ti restituirò le tue sembianze." Il Rospo-Re saltò sul davanzale, Fata Generosa pronunciò la formula magica, il rospo sparì e al suo posto si materializzò il Re, più bello e aitante che mai. Fata Generosa si era dimenticata che la pozione di trasformazione era mescolata all'elisir d'amore: lei glielo aveva donato, lui l'aveva bevuto in sua presenza, lei si innamorò all'istante, perdutamente. Si sposarono e regnarono felici e contenti. Si spostavano di paese in paese con il castello della fata per riparare disagi, alleviare disastri, soccorrere i bisognosi, nutrire gli affamati. Ogni sabato allestivano feste per far incontrare scapoli e nubili. Le mense del castello, in quelle occasioni, ammannivano manicaretti e pasticcini squisiti, e deliziose bevande d'ogni genere. E sontuosi pranzi di nozze. Il popolo fu quindi anche lui felice e contento? Può darsi, ma non lo diede a vedere. Mugugnava, mugugnava continuamente per quel pochino di tasse e di lavoro che il Re e la Regina chiedevano.
Edited by mezzomatto - 4/12/2012, 19:08
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