| La sveglia trillò malefica al chiarore dell’alba. Barbara lanciò un grugnito. Sentì la bocca impastata: si era addormentata dopo aver mangiato i pop corn davanti a un film dell’orrore. Con rabbia allungò il braccio e schiacciò il pulsante per smorzare quel driiin fastidioso. Un’altra orrenda giornata cominciava, uguale a tutte le altre; già vedeva, appena varcata la soglia del liceo, le bocche dei compagni che si piegavano in un sorriso di scherno e le loro risatine le arrivavano alle orecchie come il ronzio di tante mosche.
Barbara la brutta Barbara la culona Ma non si vergogna a uscire? Sembra che le sue gambe formino un imbuto!
Inutile che bisbigliassero o facessero finta di niente. Lo sapeva benissimo che il centinaio di occhi di quei liceali erano tutti rivolti a lei. E loro non si immaginavano neanche quanto certe parole potessero segnare la psiche di una sedicenne. Le loro frecciatine erano lame taglienti che le si conficcavano ad ogni passo, lungo il corridoio. La cosa peggiore, però, era che esse avevano finito per installarsi dentro di lei, minare la sua autostima e a farla persino vergognare di se stessa. A nulla serviva rifugiarsi nelle felpe e nelle camicie abbondanti anche d’estate, per nascondere il suo corpo flaccido e deformato dalle pieghe di grasso e il seno abnorme che i ragazzi fissavano morbosamente. Il nero era parte di lei e Barbara affogava ancora di più la sua solitudine nel cibo. Patatine, dolcetti erano ciò che colmava la sua solitudine. Dopo essersi vestita, si avvicinò con disgusto allo specchio. Cercando di ignorare il doppio mento e i nuovi brufoli che le bucherellavano le guance, prese la spazzola e l‘affondò nella chioma corvina e aggrovigliata. Con passi pesanti afferrò lo zaino e si trascinò giù in cucina, dove le canzoni di Gianni Morandi, che tanto piacevano alla madre, cominciarono a martellarle il cervello. Viveva sola con lei da quando il padre era morto cinque anni prima e le due non parlavano molto. Rosa, questo il nome della madre, era una quarantenne un po’ eccentrica dai capelli color platino e alquanto robusta, che non prestava molta attenzione alla figlia. Viveva in un mondo tutto suo, fatto di TV, musica, parrucchiere e alla figlia si limitava a dire di tanto in tanto: “Non ingozzarti così” oppure “Perché non curi il tuo aspetto se vuoi piacere ai ragazzi”? Spiegarle i fantasmi che le opprimevano l’animo non avrebbe più di tanto attirato l’attenzione su di lei e così Barbara aveva rinunciato a un dialogo. Purtroppo però i giorni passavano. Lenti. Inesorabili. E lei pulsava di dolore come fosse piena di ferite. Anche quel mattino, quindi, dopo aver bevuto la sua tazza di latte con i cereali e mangiato un paio di toast, si avviò a piedi verso scuola. La brezza gelida le sferzò il viso appena mise il naso fuori dalla porta. Era fine novembre e le temperature si avvicinavano allo zero. Si strinse nell’ampio cappotto di nylon e proseguì immergendo i piedi nei mucchi di foglie gialle e rosse che erano cadute dagli alberi durante la notte, ingombrando il viale. In pochi minuti la brezza si trasformò in una forte raffica che alzò alcune foglie facendole ruotare in un vortice. Barbara fece per alzarsi il colletto quando le parve di udire, tra il fruscio portato dal vento, il suono di una risata. Si guardò attorno. Niente. Accelerò il passo, mentre i lampioni si spegnevano uno dopo l’altro per lasciare spazio alla luce del nuovo giorno. Ahahahaha. Un’altra volta. Non poteva essersela immaginata ancora. Sembrava la risata cavernosa di una vecchia. Avanti, sciocca. Non è niente. Pensò per farsi coraggio. Le capitava di darsi buoni consigli, quali mangiare di meno o ignorare chi la prendeva in giro, ma in realtà non li seguiva. Cominciò ad avere veramente paura quando le sembrò di vedere un’ombra muoversi fra gli alberi alla velocità di una saetta. “Chi va là?” Chiese Barbara a voce alta. A quell’ora del mattino, a parte un paio di persone che erano passate diversi minuti prima, il viale era deserto. Barbara si avvicinò al boschetto delimitato dal marciapiede e notò una figura. Non la distinse subito, ma era lunga e snella. “Barbara! Barbara!” si sentì chiamare, finché, da dietro un pino sbucò una donna. A giudicare dall’aspetto, doveva avere all’incirca trent’anni; una fluente chioma di capelli scuri le scendeva sulla lunga tunica anch’essa nera, fino ai fianchi, attorno ai quali portava una vistosa cintura marrone con la fibbia ovale. Il viso, di un pallore inquietante, era segnato da alcuni disegni neri, simili a tribali, che scendevano lungo gli zigomi. Gli occhi, molto scuri, erano pitturati di viola fino all’arcata delle sopracciglia. La donna (lo era davvero?) piegò le labbra sottili e bluastre in un ghigno. “Avvicinati a me. Non ti farò nulla”. La pregò con la sua voce profonda, per niente femminile. Mosse il dito indice della mano chiusa per chiamarla. “Chi sei?” Le chiese Barbara, un po’ spaventata. “Non importa chi sono, ma ho una domanda da farti…” La ragazza attese che gliela ponesse. “Cosa saresti disposta a fare per essere bella e magra?” Barbara, sorpresa, si sentì dire: “Credo tutto”. La donna inarcò un sopracciglio. “Lo credi o lo vuoi davvero?” “Perché? Tu puoi aiutarmi?” “Sì, se sei disposta a collaborare, ma devi dirmi se la cosa ti interessa. Ti osservo da un po’ e so quanto soffri e il tuo odio per questa situazione aumenta ogni giorno”. Barbara non capiva come lei potesse aiutarla, ma sapeva quanto avrebbe desiderato piacere agli altri e non vivere mai più un giorno d’inferno, senza sguardi di disgusto e insulti. Sì, lo voleva eccome. Più di qualsiasi altra cosa. “Che cosa devo fare?” L’altra le sorrise e aggiunse: “Allora questo è un patto…”. “Aspetta…che patto? Che cosa vuoi in cambio?” Nessuna risposta. Era già scomparsa, così com’era venuta. Un’altra raffica di vento alzò le foglie, che avvolsero Barbara, solleticandola e dopo qualche istante, si posarono a terra. Quel giorno nulla accadde. La scuola fu l’ennesimo incubo e la ragazza cominciò a sospettare che ciò che aveva visto fosse stato tutto uno scherzo. La sera però, dopo la doccia, cominciò a notare qualcosa di diverso. Sul proprio riflesso allo specchio, Barbara notò che i brufoli sul mento e sulle guance erano spariti e il viso era più magro. Quando si vestì, ebbe conferma che i jeans che prima faticava ad abbottonare, ora le stavano leggermente larghi. Soddisfatta del cambiamento, spense la luce e si mise sotto le coperte, dormendo così bene come non le era mai accaduto. Il mattino dopo, con stupore, si svegliò con il pigiama che le faceva da vestito. Quando si alzò dal letto, i pantaloni le scesero fino alle cosce. Si precipitò allo specchio e non poté credere ai propri occhi: la pelle del viso era luminosa e levigata; il doppio mento era sparito e al posto del solito bombolone, poteva finalmente vedere il viso di una bella ragazza. Le sue labbra si allungarono in un sorriso. Si tirò su i capelli, mettendosi di profilo diverse volte, instancabile di vedere la nuova lei. “Chissà che diranno oggi quei vermi!” Mormorò fra sé, ridacchiando. Poi, però, un problema l’assalì. “Ora però non mi va più bene niente… che cosa mi metto?” Fortunatamente si ricordò che la madre conservava ancora dei vestiti anni ottanta che senz’altro potevano fare tendenza. Rovistò nell’armadio di Rosa e trovò uno scatolone di quei vecchi vestiti. Scelse un paio di jeans e una maglia nera e lucida con delle strisce verdi trasversali. Quando scese in cucina, Rosa non riuscì a credere ai propri occhi nel vedere quanti chili avesse perso la figlia e come si era fatta bella. “Ma com’è possibile?” Le chiese. “Leggi i giornali mamma…scoprirai delle diete fantastiche”. Tagliò corto la ragazza. Stranamente non aveva appetito, quindi uscì senza fare colazione. Si sentì riempire di piacere quando, una volta entrata nel cortile della scuola, sentì puntati addosso gli occhi di tutti. Questa volta, però, i loro sguardi non erano di disprezzo, ma di sorpresa. Le loro bocche non sputarono: “Cazzo, ma è sempre più grassa!” o “Ecco la scrofa”, bensì si arrotondarono in un “ooohhhh” di meraviglia. Barbara ondeggiò i fianchi e passò tra i fischi della folla, sfoggiando il corpo che aveva tanto desiderato. Durante la ricreazione, mentre sistemava alcuni libri sotto il banco, le si avvicinò Davide, uno dei ragazzi più popolari della scuola. “Ciao”. Le disse. Barbara, sorpresa che per la prima volta lui le rivolgesse la parola, ricambiò il saluto. Davide prese la sedia del banco accanto a lei e si sedette vicino, reggendosi la faccia con una mano. Lei guardò nei suoi occhi verdi e si sentì avvampare. “Sei molto bella, lo sai?” Le disse con tono seducente. “Davide, non mi hai mai parlato in quattro anni e ora vieni qui facendomi dei complimenti…”. “Tutti possono sbagliare e mi dispiace notarti solo oggi”. Avvicinò il viso a quello di lei, tanto che il profumo del suo respiro le fece venire l’acquolina in bocca: era caldo e le ricordava le fragole. “Sai, ho preso un’insufficienza nell’ultimo compito di matematica e so che tu sei un asso…che ne dici di venire da me…” Appoggiò una mano sulla sua. “Tipo oggi pomeriggio alle tre? Ho la casa libera”. Come rifiutare l’invito di quel bel ragazzo? Barbara accettò senza pensarci due volte. Mise la bottiglietta d’acqua sul banco, ma per la prima volta non toccò il panino con il salame che si era preparata. Tuttavia non diede molto peso al fatto di non avere fame: anzi, meglio. Finalmente poteva dimagrire senza problemi. Davide abitava in una delle case a schiera in centro. Alle tre in punto, Barbara suonò il campanello di casa Rizzoli. La porta di legno chiaro si aprì e subito un cocker nero precedette il suo padrone correndo verso il cancelletto. La ragazza udì lo scatto ed entrò. Quando l’annusò, però, il cane smise di scodinzolare, guaì e scappò in casa. “Oliver, che ti prende?” Gli chiese Davide, colpito dallo strano comportamento del cane. “Si vede che non gli piacciono gli estranei.” Lo giustificò lei. “No, tutt’altro. E’ un cane docile e socievole…comunque poco male…entra, dai”. Si era messo in tuta e la maglia di cotone blu aderiva sul suo torace ben scolpito. Si accomodarono entrambi sul divano di pelle in soggiorno e lui le scostò i capelli dal viso. “Hai un buon odore”. Le sussurrò. La ragazza si sentì avvolgere da una strana frenesia, che le tolse ogni inibizione. Senza rendersene conto, le sue labbra erano già su quelle di lui, come affamata. Gli prese fra i denti il labbro inferiore e lo succhiò, quindi disegnò il contorno della bocca con la punta della lingua. Davide allungò le mani sotto la sua maglietta, salendo fino al seno. Alzò le coppe e afferrò i due seni con le mani, come fossero mele da cogliere. In un bisbiglio le loro magliette volarono via, mentre Barbara sentiva di avere sempre più fame. Il dopobarba muschiato del ragazzo le solleticava le narici, fino allo stomaco. Quindi fu il turno dei jeans e quando i due corpi aderirono l’uno all’altro come l’incastro di un puzzle, Barbara sentì crescere in lei un piacere senza eguali. Inarcò il corpo e si offrì alla sua spinta, mentre con la bocca assaggiava la sua pelle. Poco prima del culmine, sentì i denti allungarsi e fu presa dalla voglia irrefrenabile di affondarli. Cominciava a sentire freddo e il corpo di Davide era così caldo e dissetante. I crampi allo stomaco, dapprima lievi, divennero insopportabili. Senza più ragionare, allargò la bocca in maniera smisurata e affondò i denti nell’incavo del collo di lui, lacerando la pelle e mentre lui gridava per il dolore, lei sentì il dolce tepore di sangue e di grasso salire alla bocca e scendere nel suo stomaco. Era il sapore più delizioso che avesse mai assaporato. Mentre continuava, nonostante le implorazioni del ragazzo, lo strinse più forte e sentì il corpo di lui prosciugarsi, come se si stesse rinsecchendo. Quando fu sazia e non ebbe più freddo, lasciò lì il corpo senza vita, ridotto a pelle e ossa. Osservò la cassa toracica, ben visibile e la pelle ora grigio-giallastra, mentre la faccia aveva assunto la forma e l’espressione del celebre quadro L’urlo di Munch, con la stessa bocca aperta. I suoi occhi vitrei fissavano il vuoto. Barbara non provò niente: nessun rimorso, nessuna paura. Quel ragazzo voleva solo del sesso perché era diventata desiderabile. Si meritava quello che gli era successo. Puah! Si asciugò la bocca con il dorso della mano e se ne tornò a casa, riflettendo su com’era cambiata: la ragazza introversa, impaurita, il “riccio” che si nascondeva, non esisteva più. Al suo posto, c’era invece una ragazza piena e sicura di sé, che non aveva più pietà, ma nemmeno bontà. Eppure questa lei cattiva le piaceva. Il giorno seguente, la scuola brulicava sconvolta per la notizia della morte di Davide. Un animale deve essere entrato in casa, dissero. I compagni portarono qualche fiore sul suo banco. Nessuno riusciva a spiegarsi perché il destino fosse stato così crudele con quel ragazzo. Nel frattempo, Barbara aveva perso un altro paio di chili e i capelli erano più lunghi e voluminosi. Nonostante il lutto generale, per lei la lezione andò molto bene. Il suo fascino continuava a conquistare e di tanto in tanto le arrivavano dei bigliettini con inviti a feste e cene. Quando i ragazzi in questione le chiesero una risposta, lei si limitò a dire: “Ti farò sapere”. Voleva fare la preziosa e lasciarli cuocere nel loro brodo. Dopo la lezione, però, un altro ragazzo, Giorgio, le chiese se la poteva accompagnare a casa. Conosceva quel ragazzo: passava tutto il tempo a sistemarsi il ciuffo di capelli neri, in maniera quasi maniacale. L’aveva presa in giro fin dall’inizio delle superiori e ora sembrava un cagnolino ai suoi piedi. “Certo, vieni pure se ti fa piacere”. Acconsentì lei. Mentre camminavano, i violenti crampi allo stomaco ricominciarono e così pure la fame insopportabile. Il profumo della pelle di Giorgio risvegliava in lei lo stesso istinto del giorno prima. Così cominciò a strusciare un braccio contro di lui e ad ammiccarlo con lo sguardo. Lui sembrava gradire, finché lei non lo invitò nel boschetto ad appartarsi. Cominciò a baciarlo con passione, mentre con altrettanto impeto gli toglieva la giacca. Nel momento in cui si inebriò del suo odore, sentì di nuovo la bocca allargarsi. ”Oh mio Dio, ma cosa sei tu?” gridò il giovane, paralizzato dalla paura. La ragazza sembrava avere le fauci di un serpente in grado di dilatarsi secondo la grandezza della preda. I denti erano spaventosamente aguzzi come quelli di uno squalo e facevano da cornice alla sua gola profonda. Le sue grida di aiuto non servirono a molto. La voce si spezzò nel momento in cui la carotide collassava al primo morso, facendo fuoriuscire un liquido bianco che colava dalla bocca del mostro. Dopo il suo pasto, i dolori di Barbara svanirono. Nei giorni seguenti la cosa si ripeté anche con dei barboni. Il puzzo era nauseante ed erano completamente imbrattati di sporcizia, ma il suo corpo non desiderava altro che nutrirsi così, di sangue e grasso. Li invitava a seguirla per offrire loro qualcosa da mangiare e poi, in un vicolo, li uccideva. Le forze dell’ordine organizzarono delle ricerche, soprattutto nelle vicinanze dei boschi, per vedere se riuscivano a trovare qualche indizio. Le autopsie parlavano chiaro: nessun umano era in grado di poter infliggere una simile ferita e ridurre un altro in quel modo. I sospetti erano di qualche belva dei boschi che aveva avuto il coraggio di avvicinarsi al paese, tanto da entrare persino in casa del povero Rizzoli perché affamata o anche vittima di qualche nuovo esperimento scientifico. Fatto sta che il capo della polizia, Rossano Calabrese, era sicuro di una cosa: non avrebbe mai più dormito tranquillo fino a che quello scempio non fosse finito. Alcuni studenti gli dissero di aver visto il povero Giorgio allontanarsi con Barbara, prima che il suo corpo straziato fosse trovato. Calabrese allora andò a casa della ragazza per interrogarla. “Lei conosceva Giorgio Ponzi?” La ragazza, cercando di essere disinvolta, si mostrò calma e sorridente. “Non molto bene, però quello che gli è successo è terribile”. Il poliziotto gettò un’occhiata a una foto che poggiava sulla credenza dietro di lei. In quella foto, Barbara, nelle sue forme abbondanti, aveva circa dodici anni ed era abbracciata al padre al lago di Como. Era l’unica foto che teneva esposta come ricordo di quella giornata meravigliosa. “Doveva essere difficile per lei essere presa in giro dai compagni, vero? Sanno essere molto crudeli”. Incalzò. “Sì, per questo sono dimagrita”. “Già ed è straordinario come lei sia dimagrita così in fretta”. Le offrì un sorriso sghembo. “Sta per caso insinuando che è stata una vendetta?” Ribatté la ragazza, seccata. “Io non ho prove contro di lei, signorina e quindi non insinuo niente…non si scaldi…ma se dovesse venirle in mente qualcosa, questo è il mio biglietto da visita”. Barbara afferrò il cartoncino e lo accompagnò alla porta. Calabrese uscì convinto che la giovane non avesse detto tutta la verità. Così si decise a pedinarla di nascosto, tenendo l’auto lontana dalla sua vista. Circa un’ora dopo, la ragazza uscì a piedi. La vide ballare mentre ascoltava il suo Mp3, finché non si avvicinò a un senza tetto che, infreddolito, si era accoccolato su dei giornali. La vide porgergli la mano e aiutarlo ad alzarsi. Quindi lo condusse in un vicolo cieco. Calabrese scese dall’auto e li seguì. Barbara aveva già tirato fuori i denti, quando lui si affacciò per controllare. “Altolà, fermati!” Gridò l’uomo. Con un ruggito, Barbara lo guardò attraverso le pupille strette. Con un balzo stava per piombargli addosso, ma un dolore acuto allo stomaco la fece cadere. Alle sue orecchie arrivò il rimbombo dello sparo. Fu allora che un vortice di foglie l’avvolse ed ecco apparire la misteriosa donna del dono. Solo che in quel momento non si trovava più nella sua città. No. Era nella tenebra, dove ovunque guardasse, non vedeva altro che l’oscurità. “Dove siamo?” chiese la ragazza. “Siamo nel limbo, nel confine invisibile tra la vita e la morte”. “Sto morendo?” “Mia cara, il tuo corpo è già morto quando hai avuto la trasformazione. Ora, con il proiettile la tua anima si trova qui, separata dal tuo corpo”. Le fece un sorriso sghembo e continuò: “Hai ottenuto quello che volevi con tutta l’anima e hai seminato la tua vendetta. Ora è tempo di pagare per ciò che hai avuto”. Barbara sgranò gli occhi. “Come pagare?” “Tutto ha un prezzo, mia cara e il nostro era un patto”. Seguitò la donna, quasi schernendola. “Ma non ero a conoscenza di cosa avrei dovuto pagare…”. La donna inarcò le sopracciglia. “Oh sì invece…” Ridacchiò maligna. “Tutte le volte che scrivevi sul diario Ti prego, fammi diventare più magra; ma le parole che mi hanno portato a te sono state Stamattina abbiamo fatto Faustus di Marlowe… anch’io venderei l’anima al diavolo se potessi per ottenere ciò che voglio e hai accettato il patto che ti ho proposto”. “Ma io non sapevo…” provò a giustificarsi, spaventata. “Io sono una traghettatrice di anime… le trovo e le porto al mio padrone”. “Ma io non volevo…” “Troppo tardi”. Tagliò corto l’altra. “La tua anima appartiene a me fin dal primo incontro, così pure quelle degli sciocchi ingenui che hai assorbito”. Dunque era quello il punto cui era arrivata? All’inferno per ottenere qualche giorno di popolarità? Com’era stata stupida e quella era la sua punizione. Barbara vide la sua carnefice cambiare il colore delle iridi, che divennero bianche. La afferrò per la gola con le mani ossute, mentre lei non riusciva neanche a muoversi. Sentì immediatamente che stava svanendo. Riusciva a vedere solo sprazzi di luce e buio. Poi più niente. Con lei finirono gli omicidi. La notizia lasciò dapprima la gente frastornata e poi diventò l’inchiostro di alcuni articoli di giornali che finirono ben presto nel cestino, rimanendo solo una brutta storia di città da raccontare a halloween nella normalità della vita.
Edited by pulcino82 - 10/11/2012, 17:11
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