| Aprii gli occhi. Il sole era ancora dove l’avevo lasciato e la lancetta delle ore non aveva fatto il minimo movimento. Era come se quella giornata non intendesse passare. Mi sentivo imprigionata in una bolla in cui il tempo non trascorreva mai. C’eravamo solo io e la natura. Stupida natura! Il cellulare non prendeva e quando il cielo si incupiva l’aria gelata graffiava come lame d’argento sulla mia pelle delicata. Tutto quel verde cominciava davvero a darmi sui nervi. Presi il mio I-pod e cercai una canzone qualsiasi. Qualunque cosa pur di far tacere quel maledetto silenzio. Infilai le cuffie e, con la musica a tutto volume, partii. Camminai seguendo il ritmo della musica finché un suono acuto e irritante mi avvisò che la batteria era scarica. Mi strappai le cuffie dalle orecchie e riposi l’I-pod nel marsupio. Nemmeno la musica era dalla mia parte. Procedetti con l’umore a terra. Ma qualcosa attirò la mia attenzione. Poco lontano c’erano strane costruzioni in pietra. C’era persino una piccola abitazione. Mi strinsi nelle spalle e procedetti. Sentii una voce. Una voce flebile e lontana. Mi fermai e aspettai. Non parlò più. Forse era solo la mia immaginazione. La casa sembrava intatta. Era circondata da un cortile ricolmo di erbacce, al centro del quale c’era una sorta di fontana con la statua di un angelo che si nascondeva il viso con le mani. Attraversai il muretto e facendo attenzione raggiunsi il centro del cortile. La statua era bellissima. Liscia e candida. La pioggia, la neve, la polvere non l’avevano sfiorata. Splendeva di purezza e magnificenza. Mi pentii di non aver portato la macchina fotografica, ma ogni particolare di quell’immagine si era impressa nella mia memoria come un disegno indelebile di perfezione. Mi sporsi per poterla toccare. Volevo toccarla. Era un desiderio irrazionale, eppure non riuscivo a pensare ad altro. Riuscii a sfiorarla con le dita, persi l’equilibrio e caddi nella fontana. Cadendo sbattei il ginocchio sul fondo in pietra. Provai ad alzarmi, ma una fitta lancinante mi costrinse a restare seduta. Ero fradicia, dolorante e forse sanguinavo anche. Mi maledii e sentii ridere. Qualcuno stava ridendo. Rideva di me. Mi guardai attorno. Non c’era nessuno. “Chi c’è?” domandai. La paura mi avvolse come un manto ghiacciato. Ero da sola. Il cellulare non prendeva. Ero ferita e bagnata. “Scusa non ti volevo spaventare!” rispose qualcuno che non riuscivo ancora a vedere. Era un ragazzo. La sua voce era calma e profonda. “Dove sei?” chiesi, cercando nuovamente di mettermi in piedi. “Tocca la statua!” rispose il ragazzo. Tocca la statua? Mi stava prendendo in giro? “Non ti prendo in giro. Tocca la statua!” ripeté. “Perché dovrei?” Lo sentii sospirare. “Non posso aiutarti se non lo fai!” Mi stava sicuramente prendendo in giro, ma non avevo altra scelta. Il cielo si era oscurato di nuovo e l’aria fredda mi bruciava la pelle. Allungai la mano e toccai il drappo che avvolgeva l’angelo. Una mano si posò sulla mia spalla. Urlai. Qualcuno tentò di tirarmi fuori dall’acqua. Cercai di divincolarmi. La paura mi impediva di respirare, la mente mi si offuscò e persi i sensi… Aprii gli occhi. Avevo fatto un sogno assurdo! “Cominciavo a preoccuparmi!” disse una voce che non conoscevo. Mi guardai attorno e subito ricordai quello che era successo. Non era stato un sogno. Ero caduta nella fontana. Ero fradicia. Il ginocchio mi faceva male. Quella voce. La statua e il buio. Era successo davvero. Mi misi seduta e lo vidi. Era in piedi davanti al fuoco intento a dipingere. “Chi sei?” domandai, cercando la via di fuga più vicina. Lui sbucò dalla tela e mi rivolse un mezzo sorriso che mi lasciò senza parole. Non avevo mai visto un viso tanto bello e perfetto. I lineamenti duri e spigolosi. Le labbra sottili di una particolare tonalità di rosa. I capelli biondi, raccolti in una lunga treccia e due occhi di un azzurro talmente chiaro da sembrare trasparenti. “Dovrei fartela io questa domanda. Sei entrata nella mia proprietà e mi hai inzuppato le lenzuola!” rispose e tornò ad occuparsi del suo dipinto. Arrossii e mi accorsi di essere completamente asciutta. Indossavo ancora i miei vestiti, ma erano asciutti e… profumati. “Allora? Mi vuoi dire il tuo nome?” “Aurora!” risposi titubante. Lui spostò il cavalletto ed io potei vederlo in tutta la sua bellezza statuaria. La sua pelle era candida e immacolata. Era alto, con un fisico asciutto, ma ugualmente muscoloso. Cosa ci faceva in quella casa? Da solo? “Il mio nome è Michele!” disse. Ero intimidita da lui e dalla situazione. “Sta per arrivare un brutto temporale! Esco a bloccare le finestre! Aspettami qui!” disse ed uscì. Scostai le lenzuola e controllai il ginocchio. Non sentivo più alcun dolore. Non c’era nemmeno un graffio. Neanche un piccolo livido. Eppure ero sicura che fosse uscito del sangue. Non avevo controllato, ma ne ero certa. Provai ad alzarmi. Niente. Nessun dolore. Camminavo perfettamente. Notai la tela e mi incuriosii. Cosa stava dipingendo? “Non è ancora finito! Dovrai pazientare!”disse Michele, sbucando dall’ingresso. “Dovrei rientrare!” tentai. “Non puoi! Non è sicuro mettersi in cammino con questo tempo. Potresti perderti!” “Non è stato difficile arrivare qui!” dissi irritata. Michele scosse il capo e chiuse la porta a chiave. “Non è la stessa cosa. Il tempo è contro di te. Dovrai avere pazienza!” disse con calma e si infilò la chiave in tasca. Mi lasciai cadere sul letto sconsolata, spaventata e indifesa. Chi era quel ragazzo? “Non ti farò del male!” disse come se riuscisse a leggere le mie paure. “Non ti conosco!” dissi io, trattenendo le lacrime. Michele scosse il capo e si sedette sul tavolo con le gambe a penzoloni. “Avremo un sacco di tempo per conoscerci. Vuoi cominciare tu?” Feci segno di no con la testa. Lui si strinse nelle spalle. “Se iniziassi io non mi crederesti!” disse. Per un attimo sembrò triste, titubante e spaventato quanto me. “Fai in modo che io ti creda!” risposi. Vedere la sua vulnerabilità fece passare qualsiasi paura. Mi sedetti a gambe incrociate e attesi che iniziasse a parlare. Di tanto in tanto cercavo il suo sguardo senza mai riuscire a incontrarlo. Teneva gli occhi chiusi e respirava lentamente come se cercasse il modo più adatto per cominciare. “Cos’hai pensato quando hai visto la statua dell’angelo?” chiese infine. “Non dovevi essere tu a parlare?” “Rispondi a questa semplice domanda, per favore!” Non riuscii a ribattere. Ripensai alla statua. “Mi sono chiesta come potesse essere così bianca e luminosa senza essere stata toccata dal tempo!” risposi. Guardai il suo viso. Sembrò deluso. “E poi…ho pensato che fosse un peccato che il suo viso fosse coperto!” aggiunsi. Immaginai Michele in quella posizione. Sarebbe stato un reato coprire il suo viso. “La colpa e la vergogna privano l’angelo del suo volto!” la sua voce suonò cupa e lontana come provenisse da un altro mondo, dall’oltretomba. “Che cos’è?” domandai colpita da quel suo tono così solenne e oscuro. “La legge!” rispose semplicemente. Scese dal tavolo e si spostò di fronte all’unica finestra che non aveva sbarrato. All’esterno infervorava il temporale. Un lampo squarciò il cielo seguito subito da un rombo profondo. Sobbalzai. Lui se ne stava immobile come fosse fatto di roccia levigata. Rigido. Teso. Spaventato. Avrei voluto abbracciarlo, ma non lo feci. Avrei voluto dire qualcosa, ma non lo feci. Avrei voluto leggergli dentro, ma non potevo. Potevo solo aspettare. “Ho fatto un solo sbaglio nella mia vita. Un unico errore. Un’unica colpa. La più grave di tutte. Più atroce di qualsiasi cosa tu possa immaginare…”si interruppe. Non riuscivo ad immaginare di quale colpa potesse essersi macchiata un’anima pura come quella che avevo di fronte. Era davvero come se riuscissi a vederla. Un ammasso di luce bianca. Volteggiava tutt’attorno al suo corpo, lo avvolgeva come l’abbraccio caldo e delicato di una madre premurosa. “Non mi chiedi cosa ho fatto?” mi chiese, continuando a guardare fuori. “Non me lo devi dire per forza. Mi conosci appena!” Le sue spalle tremarono e lo sentii ridere. Una risata nervosa. “Ti chiami Aurora Strauss, compirai vent’anni a novembre. Hai frequentato il liceo classico solo per accontentare tua madre e studi danza da quando hai cinque anni. Hai letto Il vampiro di Polidori in un pomeriggio e ascolti sempre la stessa compilation tutte le volte che ti senti triste. Hai sofferto per un amore non corrisposto e ti sei chiusa in te stessa. Sogni di visitare le più belle capitali del mondo, ma mai da sola. Vuoi sposarti e avere tanti bambini. Vuoi una casa in riva al mare dove, una volta invecchiata, ti siederai a guardare le onde e a mettere su carta i tuoi pensieri per lasciarli ai tuoi nipoti!” disse. Avvampai e iniziarono a tremarmi le mani. Come sapeva tutte quelle cose? Nessuno era a conoscenza dei miei veri sogni. Nessuno era mai andato così in profondità. Forse poteva leggere nel pensiero, ma era assurdo. Non ero la protagonista di uno di quei romanzi che leggevo prima di addormentarmi, ero solo Aurora. Una ragazza normale, con sogni normali, chiusa in una casa con uno sconosciuto che conosceva tutto di me, eppure non riuscivo a sentirmi spaventata, continuavo solo a pensare che mi trovavo nel luogo in cui dovevo essere. “Non ti spaventa il fatto che io conosca tutta la tua vita?” domandò provocatorio, voltandosi per vedere la mia reazione. “Sarà lo scricchiolare della legna nel camino. Sarà il profumo di vaniglia e cannella della casa. Sarà che fuori il cielo sta combattendo contro la terra. Sarà che sono stanca. Sarà che sei tu… ma non mi spaventa affatto. Mi incuriosisce, ma non mi spaventa.” risposi. Lasciai uscire le parole e mi sentii più leggera. Michele sorrise impercettibilmente. Un sorriso fugace e triste. “Ho ucciso un compagno!” disse, inchiodandomi col suo sguardo di ghiaccio. Non ebbi il tempo per elaborare quelle quattro parole, un fulmine cadde proprio fuori dalla finestra e la porta si spalancò. Il vento era gelido e una raffica di pioggia invase la piccola abitazione. Balzai in piedi. Michele se ne stava immobile e mi guardava con aria affranta. Tentai di chiudere la porta ma era troppo pesante. Non riuscii nemmeno a spostarla. Mi sbilanciai e caddi sul pavimento. Michele si spostò di fronte a me e un secondo dopo ero al sicuro sul suo letto. Lui si voltò di scatto. C’era qualcuno sull’uscio. Era un uomo. La parte sinistra del suo viso era coperta da una maschera rosso vivo, mentre la parte destra era bianca come cera. Furono i suoi occhi a colpirmi e spaventarmi. Erano di un blu intenso con le iridi cerchiate di rosso. Era spaventoso. Indossava un completo scuro e il sorriso che aveva stampato sulle labbra era inquietante. “E così il caro Michele ha trovato il suo salvacondotto! E’ troppo facile prendere una ragazzina insulsa come quella, sbatterle in faccia i tuoi occhioni da cane bastonato e intortarla con qualche bella favola per farti dare il fatidico bacio. Non è affatto divertente! Voglio un po’ d’azione, lacrime e pugni. Puoi fare di meglio! Perché non le dici come stanno le cose?” domandò. Salvacondotto? Ragazzina insulsa? Bacio? “Raphael!?” sibilò Michele. Raphael scansò Michele. Eravamo faccia a faccia. Mi guardò dritta negli occhi e sentii il mio corpo reagire a quella presenza. Il cuore batteva a mille e ogni muscolo mi pregava di non assecondarlo. Gli occhi non riuscivano a staccarsi da lui, mentre il resto del mio corpo non lo voleva nemmeno vicino. Mi sfiorò il viso con la mano, ardeva. “Lasciala stare!” ordinò Michele furioso. “Cosa sei venuto a fare?” Raphael sbuffò. “Mettiamola così, sono venuto a rovinarti la festa!” “Perché?” domandò Michele esausto. “Da quando te ne sei andato la vita è diventata una pacchia per noi altri. A nessuno importa se qualche volta facciamo qualche cattiveria. Siamo liberi di agire indisturbati. Se tu tornassi ci rovineresti il divertimento, sei così noioso e lagnoso!” rispose, continuando a ridere. Non riuscivo a capire. Di cosa parlava Raphael? Ho ucciso un compagno! Queste parole rieccheggiarono nella mia mente, ma ancora non riuscivo a credere che Michele potesse aver tolto la vita a un altro essere umano. Raphael rise in modo sguaiato e con due dita mi sollevò il mento per potermi imprigionare nel suo sguardo di fuoco. “Non è così semplice, bambina! Michele non ha ucciso un misero essere umano. Ha ucciso un angelo!” Sentii una fitta al petto. Una stilettata. Mi voltai alla ricerca dei suoi occhi. Li incrociai per un brevissimo istante. Riuscii a leggere tutta la sua sofferenza e capii che in parte la causa ero io. Stavo vacillando. “Chi sei tu?” domandai con voce incolore. Cominciò ad affiorare la paura. Mi aggrappai al braccio di Raphael per non perdermi nell’oblio della confusione che regnava dentro di me. L’uomo sogghignò. Le spalle di Michele si curvarono. Lo stavo ferendo. Lo stavo tradendo. Michele sospirò. “Sono un angelo, un cherubino. Io e Raphael appartenevamo alla stessa schiera celeste e il nostro compito era quello di intervenire nelle guerre quando il male prendeva il sopravvento. Avevamo molto potere. Ben presto iniziammo a usare il nostro potere in modo empio. Intervenivamo direttamente negli scontri e non sempre seguendo nobili principi. Iniziai ad oppormi, ma ero solo e perciò nessuno mi dava ascolto. Una notte uno dei nostri causò la distruzione di un villaggio e molti innocenti persero la vita. Intervenni. Lottammo e alla fine lo uccisi…” una lacrima cristallina gli rigò il viso, illuminandolo di umanità. “Uccidere un angelo è la colpa più grave di cui un cherubino si possa macchiare. Per questo non sono stato giustiziato a mia volta, ma solo esiliato fino a quando il bacio di un cuore puro innalzerà la mia anima alla salvezza!” concluse. Raphael rise. “Il cuore puro saresti tu!” Sentii salire la rabbia e non riuscii a trattenermi. “Quindi tutto questo rientrava in un tuo piano per riacquistare la libertà? Mi fai trovare la tua casa, mi spingi verso la statua, ti manifesti come una sorta di buon samaritano. Anche il temporale è opera tua? Ti sei dato tutto questo da fare per un bacio? Intendevi forse farmi innamorare perché il tutto sembrasse più vero? Volevi che mi innamorassi di te per poi tornartene a scorazzare con i tuoi compagni cherubini? Per essere un angelo sei proprio un infame!” Una parte di me si pentì di quelle parole, mentre l’altra era infervorata dalla rabbia e da Raphael. Balzai in piedi e, senza degnarlo di uno sguardo, uscii. La pioggia continuava a scendere senza tregua, ma la ignorai. Non mi importava delle gocce che mi inondavano il volto, nascondevano i solchi lasciati dalle mie lacrime. Non mi importava del freddo, mi ricordava che quella era la dannata realtà. E non mi importava dei lampi che attraversavano rapidi il cielo, erano la perfetta manifestazione di quello che provavo. Mi sarebbero serviti anni di analisi, ma era meglio convincermi di essere pazza piuttosto che convivere con quel ricordo, quelle sensazioni. Mi lasciai cadere. L’erba era fradicia proprio come lo ero io. Alzai lo sguardo verso il cielo che si squarciava sopra di me. Sentivo le lacrime mischiarsi alla pioggia gelida. Ero uno stupida! Una stupida ragazzina che si era lasciata convincere che le favole potevano trasformarsi in realtà. Eppure lo sapevo che la vita non fa sconti per nessuno. La vita ti mostra la luce solo per il gusto di privartene quando ne hai realmente bisogno. La porta della casa si aprì e si richiuse. Non mi voltai. Sentii dei passi farsi vicini. “Cos’è quella faccia?” domandò Raphael. Mi morsi il labbro inferiore per soffocare un singhiozzo. Un’altra delusione. Un’altra pugnalata. “Gli angeli sono creature meschine, avide e ambiziose! Tutte quelle storielle sulla bontà e la misericordia sono solo un mucchio di idiozie!” Si inginocchiò di fronte a me e posò le mani sulle mie ginocchia, poi riprese: “Siamo proprio come voi. Amiamo. Tradiamo. Soffriamo. Desideriamo. Uccidiamo anche…” Mi confuse col suo sguardo e si avvicinò. Provò a baciarmi. Mi scostai piena di ribrezzo. “Ci ho provato!” disse, balzando in piedi con eleganza. “Addio e…non fidarti degli angeli!” aggiunse prima di dissolversi in una nuvola di colori. La pioggia cessò di cadere e le nubi si diradarono lasciando intravedere un perfetto velo ricamato di stelle. Cercai la luna. Era piena. Bellissima e confortante. La notte metteva meno paura quando una luna come quella la rischiarava. La porta si aprì di nuovo. Non poteva che essere lui. In silenzio mi si sedette accanto. “Perdonami! Non volevo ferirti o turbarti. Ho aspettato a lungo l’arrivo della persona che potesse rendermi libero e sei arrivata tu! L’unica ad aver sentito la mia voce. L’unica che abbia suscitato in me tale tormento!” “Tormento?” “Anche gli angeli si innamorano ed è per questo che non voglio il tuo bacio!” “Ma resterai bloccato qui!” protestai. “Non mi importa! Gli angeli provano emozioni più intense rispetto a voi umani. Mi è bastato uno sguardo per innamorarmi di te! Dimenticherai ogni cosa e tornerai alla tua vita. Cos’è la mia libertà in confronto alla tua?” Non gli permisi di dire o fare altro. Era sufficiente. Ero lucida. Nessuno mi stava influenzando e per la prima volta in vita mia ero sicura della mia decisione. Lo baciai. Semplicemente. Le nostre labbra prima si toccarono timorose per poi abituarsi le une alle altre. Fu un bacio lento e delicato. Solo il bacio di un angelo poteva essere così meraviglioso e doloroso allo stesso tempo. Indugiammo prima di disperderne la magia. “Perché l’hai fatto?” mi chiese senza fiato. “Non voglio dimenticare questa notte. Non voglio dimenticarti. Un giorno forse me ne pentirò. Chi può competere col bacio di un angelo?” Rise e mi accarezzò il viso. “Sapevo che era la cosa giusta da fare. Eri disposto a rinunciare alla tua libertà pur di non ferirmi, ma io sono disposta a rinunciare a te se questo ti può rendere libero. L’amore non è fatto di catene ma di petali di rosa lasciati liberi di disperdersi sulla terra. Ora però ho paura. Cosa succederà domani? Non ti vedrò più?” chiesi, trattenendo nuove lacrime. Michele mi abbracciò. Profumava di luce. “Sarò con te. Sempre. Non ti perderò mai di vista. Ti guarderò crescere e innamorarti. Vedrò i tuoi progetti realizzarsi e verrò a farti visita, ma solo di notte nei tuoi sogni più nascosti. Non sarò invadente e in ogni momento potrai chiedermi di andarmene e io ubbidirò!” “Posso restare qui ancora un po’?” chiesi. “Tutto il tempo che vuoi!” rispose. Mi passò la mano fra i capelli e fui avvolta da un soffio caldo. Le palpebre vacillarono fino ad arrendersi al peso della stanchezza. Lo sentii sussurrarmi una dolce melodia all’orecchio mentre i miei sensi lentamente si abbandonavano a quel tepore… Aprii gli occhi. Non c’era più. Era scomparso. Al suo posto c’era una rosa bianca posata su un disegno ad acquarello raffigurante una bambina con un tutù rosa. Ero io! Strinsi il disegno al petto e mi lasciai trasportare dal profumo dolce di quella rosa delicata. Avrei voluto avere più tempo. Avrei voluto stare con lui. Ma se n’era andato. Una lacrima mi bagnò il viso. Non dovevo piangere. Amavo un angelo e lui mi amava. Nessun ragazzo avrebbe mai potuto sostituire Michele, ma ciò non significava che non avrei più amato, al contrario, ora che conoscevo l’amore mi sentivo pronta ad aprire di nuovo il mio cuore. Mi alzai. Il sole era sorto. Lanciai un ultimo sguardo alla casa, ma non c’era più. Era ridotta a un mucchio di macerie. Lasciai il giardino e la curiosità mi spinse a guardare per un’ultima volta la statua dell’angelo. Qualcosa era cambiato però. La sua mano destra era posata all’altezza del cuore, mentre la sinistra indicava il sentiero che avevo percorso il giorno prima. Alzai lo sguardo. Volevo vedere il suo volto. Il mio cuore perse un colpo. Era Michele!
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