| Finalmente finiva quell’interminabile galleria! Il sole stava già riempiendo coi suoi colori il mattino e dal lato destro della mia auto si intravedeva il mare. Io mi sentivo il cuore in gola; speravo, tuttavia, che le cose sarebbero presto cambiate, e quella era l’unica motivazione che continuava a farmi spingere sull’acceleratore. Perdersi e ritrovarsi, ogni settimana, ogni volta con un magone diverso: più aumentava l’amore che ci stringeva, più tornare a casa ci uccideva entrambi. All’andata il sole accompagnava la mia allegria, la voglia incredibile di arrivare il prima possibile; al ritorno, era nostalgia, era voglia di tornare indietro, per sempre… Pensavo che questi continui viaggi non fossero altro che effimeri pensieri gioiosi in una vita triste in cui accontentarsi è impossibile, però mi impegnavo affinché simili considerazioni non saltassero fuori finché eravamo insieme… Il cartello di fine territorio fu una pugnalata al cuore: sapevo che l’avrei visto ma il segnale autostradale mi fece scoppiare a piangere, e a stento riuscivo a vedere la strada. Avevo anche spento l’autoradio per evitare che emozioni improvvise si mischiassero col mio stato d’animo ma era bastato solo un rettangolo verde con una linea diagonale rossa a farmi perdere il controllo. Ripensavo ai tuoi occhi, ai tuoi capelli, al tuo sorriso, a come era stato assurdo conoscersi, per caso, e a come era incredibile il rapporto che avevamo instaurato, in pochi mesi, contro i pronostici di tutti. Mi ripetevo che il tempo andava goduto attimo per attimo e che presto questo calvario sarebbe finito, che avremmo potuto vivere insieme! Mi tornò il sorriso. ”Ogni lungo cammino comincia con un primo passo” pensavo, e io mi ero impegnato veramente affinché passo dopo passo potessimo instaurare qualcosa di serio e duraturo. Solo poche ore prima eravamo insieme, a stringerci, a prometterci che non sarebbe stato così per sempre… Ora io guidavo divorando kilometri, in silenzio, solo coi miei pensieri, riflettendo su come la vita potesse essere impietosa: che senso aveva conoscersi e innamorarsi se poi si doveva soffrire così tanto per stare insieme? Intanto il sole mi aveva abbandonato e mi ritrovavo immerso in grandi banchi di nebbia, a dimostrazione ulteriore che ormai ero vicino al luogo del ritorno, a quella che però sentivo sempre meno casa mia dato che non c’era nessuno ad aspettarmi, niente a motivarmi, solo il pensiero, in genere, che presto avremmo avuto a disposizione un altro fine settimana da passare insieme in qualche posto meraviglioso. La nebbia nascondeva tutto: ero davvero solo. Erano sparite le tue risate, la nostra giornata al mare poche ore prima, le nostre portate al ristorante accompagnate da buon vino, la notte insieme a dormire abbracciati: c’era solo una nebbia feroce attorno a me, e già i ricordi dei due giorni precedenti erano stati riposti in qualche angolo del mio cervello e catalogati come passati. Aprii il finestrino per fumare una sigaretta. L’aria era fredda, pungente, ma la nebbia era così morbida che per un attimo, nonostante la velocità della mia vettura, mi sembrò di accarezzare le tue mani. Era così soffice che sembrava di poterla afferrare, proprio come lo sono sempre state le tue dita e i tuoi palmi quando li portavo teneramente alla bocca, quasi adorandoti. Purtroppo i miei tristi pensieri continuavano a non lasciarmi in pace, e non c’era modo di vincere la tristezza incredibile che provavo nell’avvicinarmi sempre di più a casa e allontanarmi sempre di più dall’unico posto dove sarei voluto essere. A nulla serviva ripetersi che presto avremmo ricominciato una nuova vita insieme, che stavamo sfruttando tutto il tempo a nostra disposizione, che nulla sarebbe andato perso anche di questa sofferenza ebdomadaria che puntualmente ci attanagliava quando ci stringevamo l’ultima volta prima di separarci. Dopo ogni sogno ci si sveglia, e per noi la sveglia era rappresentata dal navigatore che annunciava l’orario di arrivo a destinazione e dalla portiera del passeggero che si richiudeva mentre, volendo rubare ogni attimo al mio nemico Chrònos, continuavo a guardare la tua schiena sempre più lontana, più irraggiungibile, finché essa non spariva dietro alle palme della piazza del tuo paese e poi dietro a un portone, mentre io ripartivo senza distogliere lo sguardo dal sedile accanto a me, rimasto vuoto all’improvviso, dove nessuno più sedeva ad accarezzarmi la testa dolcemente. L’angoscia lasciava poi sempre posto alla rabbia: quante altre portiere si sarebbero dovute richiudere, e quanti viaggi di ritorno ci sarebbero dovuti essere, prima di poter godere anche noi di un po’ di felicità? Se esisteva una qualche ricompensa divina per i sacrifici, io dovevo usufruirne certamente! Mentre riflettevo iroso, mi tornarono in mente le storie passate, le sicure promesse già rivolte ad altre persone che ormai non facevano più parte della mia vita, e il coraggio che spesso mi aiutava a superare questi momenti deprimenti restava dilaniato, e io mi sentivo veramente solo, consapevole che tutto può cambiare, che certe volte può davvero sembrare tutto uguale, e la paura di vivere troppe volte ci ferma. Allora mi dicevo che il timore di compiere scelte sbagliate era il quid che ci permetteva di impegnarci con tutte le nostre energie per raggiungere i nostri scopi, e quindi amavo le mie paure e ragionavo su esse per vincerle. Solo durante i viaggi di ritorno esse vincevano su di me e mi portavano a stare male tanto da non vedere più nessuna via d’uscita alla mia continua sofferenza, stavolta più che mai. Ero arrivato. ‘Chissà se anche da te c’è questa stupida nebbia che avvolge la città’ pensai, poi mi ricordai di quanto l’avevi trovata suggestiva quei due giorni che eravamo stati a casa mia, l’unica volta, e avevo scoperto che da voi la nebbia non si vedeva mai… Chissà che cosa stavi facendo mentre io parcheggiavo la macchina e mi preparavo ad andarmene a letto stanco per le ore di guida. Avevo voglia di urlare, di ripartire, invece salii le scale, aprii la porta, accesi il riscaldamento, mi spogliai e m’infilai sotto le coperte. Avevo ancora addosso il tuo profumo o il mio cervello me lo faceva sentire per averti più vicino? O stavo semplicemente negando quello che era successo poco prima che salissi in macchina? Stavamo passeggiando mano nella mano e all’improvviso quel suono del cellulare. Ho letto il tuo nome e ho capito subito che ancora una volta avevi dimenticato di mettere quel maledetto blocca tasti! “Amore – ti ho sussurrato – mi hai mandato un messaggio!” “Ma no, ce l’ho in tasca il cell” mi hai risposto, troncando la parola cellulare con quel tuo accento stupendo. Con gesto meccanico l’hai tirato fuori dai pantaloni e l’hai scoperto illuminato. Hai sorriso e mi hai chiesto cosa mi avessi scritto. Io non avevo neanche letto il contenuto fino a quel momento, allora ho visualizzato e mi sono bloccato. Ho smesso di passeggiare e l’ho riletto una seconda volta, poi una terza. Il messaggio diceva (lo ricordo ancora a memoria): “A me non và che tu lo veda ancora dopo che siamo stati insieme! Mi avevi detto che non vi frequentavate più, che non ti interessava più nulla di lui, e adesso ci esci ancora? Sei incoerente!”. Te l’ho letto e ti ho chiesto cosa significasse. Tu hai risposto con la tranquillità che ti aveva sempre contraddistinto, spiegandomi: “È un messaggio vecchissimo rimasto salvato in bozze da almeno due anni. Era per Letizia, figurati!” e hai sorriso, quasi sbeffeggiando la mia preoccupazione circa la tua fedeltà. Ho sorriso anch’io e abbiamo continuato a passeggiare sul lungomare col sole che ci picchiava in testa, finché non mi sono bloccato di nuovo e ti ho chiesto: “Ma è proprio vero che l’hai scritto tu questo messaggio?”. Stavolta era impossibile non individuare una punta di fastidio e di risentimento nella tua voce quando hai ribadito di sì. Allora io ti ho guardato negli occhi, quegli occhi neri da corvo così penetranti da lasciarmi nudo ogni volta che sostenevi il mio sguardo. Ho farfugliato: “Non l’hai scritto tu. Tu non commetteresti mai un errore ortografico nemmeno in un sms. Non puoi aver scritto va con l’accento!”. Mi hai sempre fronteggiato a viso aperto ogni volta che abbiamo litigato. Hai mentito varie volte anche negando l’evidenza e sempre puntandomi i tuoi occhioni dolcissimi addosso tanto da farmi dimenticare qualsiasi cosa e farmi ricordare solo quanto ti amassi. Allora perché il tuo sguardo, stavolta, era fisso a terra? Ho iniziato a piangere come un bambino mentre ti supplicavo: “Guardami, ti prego, guardami…” e man mano la mia voce si affievoliva sempre più e perdevo le speranze per ogni secondo che i tuoi occhi passavano a guardare il selciato. L’ultimo ricordo nitido che ho di oggi sei tu che mi dici, dopo un intervallo di tempo interminabile: “Andiamo al bar e ti racconto tutto”, poi il ricordo si confonde completamente e non capisco più chi è Andrea, perché lo frequenti da un mese, perché non mi dici più che mi ami, perché paghi il conto del bar e mi lasci seduto a fissarti mentre ti allontani, e perché il sedile accanto a me è vuoto quando mancano ancora quaranta minuti prima di doverti riaccompagnare a casa per imboccare l’autostrada.
Edited by vivonic - 4/9/2012, 19:42
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