| Sotto i suoi occhi
Sotto il suo sguardo senza tempo e incolore, l’immensa distesa arida che una volta era stata il mondo si svolgeva senza una fine né un inizio; il suo passo stanco echeggiava nel vuoto, sollevando la sabbia sottile in pallidi vortici. Volse gli occhi al cielo di piombo che sovrastava il deserto e con un senso ineffabile di amarezza ricordò il tempo dei colori. Era un tempo lontano, quello, era l’epoca della vita e apparteneva a un altro mondo, un mondo che non era fatto solo di sabbia e nuvole, un mondo che conosceva il bacio caldo del sole, il guizzo dorato dei suoi raggi, il verde di prati e alberi, l’azzurro del mare e il rosso vermiglio dei massicci vulcani, ora per sempre addormentati, levigati nelle forme dal suo respiro smarrito, pallidi riflessi del passato. Era quello un mondo ormai perduto che andava oltre il grigio silenzio del presente, attraverso cui egli incedeva tristemente, fiacco e solitario. Impediva quasi sempre alla sua memoria di vagare verso quel mondo, verso quel tempo: era troppo doloroso da portare il fardello di essere l’unico sopravvissuto, il sovrano del nulla. Egli aveva distrutto, certo, ma aveva anche creato: le sue dita avevano scolpito il volto di quel mondo ormai morto. Ne era stato lo spirito, il soffio vitale e ora era solo il guardiano delle sue spoglie, troppo fragili per mutare ancora, per tornare alla vita. Pensava spesso che sarebbe stato meglio non avere né coscienza né ricordo, ma era quello il prezzo da pagare per essere stato lo scrigno dell’essenza dei mortali per così lungo tempo, forse troppo; così tanto che gli era divenuto impossibile comprendere dove finissero loro e cominciasse lui, così tanto che aveva dimenticato il momento nel quale, per la prima volta, il suo sguardo si era aperto al mondo, un barlume di lucidità aveva invaso il suo essere e un cuore invisibile aveva cominciato ad amare, odiare e palpitare. Forse era capitato quando il primo di loro, gli umani, era morto: dopotutto, da qualche parte doveva pur andare a finire la loro coscienza, era solito dirsi. E mentre il mondo cresceva e cambiava, molti di loro passavano oltre, al di là dei cancelli della morte e venivano a fortificare il suo spirito, finché il suo essere non divenne una grande anima. E aveva un viso anche, e occhi e labbra, per piangere, guardare e parlare; ma nessuno poteva vedere ciò che il suo involucro cristallino celava. Sempre non visto, sempre testimone e mai protagonista, aveva percorso la florida terra degli umani e degli animali, era stato il contesto delle loro vite: prima insensibile, poi partecipe pur nel suo obbligato silenzio. Le sue membra eteree carezzavano i loro volti quando egli soffiava tra i loro capelli e mormorava loro segrete parole, fischiando nelle strade vuote, picchiettando sulle finestre delle loro case… E li spaventava anche, quando la rabbia scuoteva il suo spirito: poteva distruggere, se voleva e lo aveva fatto molte volte. Adesso era il protagonista finalmente, l’unico personaggio, a dire il vero, ma non riusciva ad apprezzare l’ironia della faccenda. Tutto aveva avuto fine, ma non lui: era stato lasciato indietro, abbandonato in quella morte infinita, con il peso delle loro coscienze a gravargli l’anima. Non c’era vera luce nel grigiore del giorno e anche il bagliore siderale aveva smesso di illuminare la notte: i suoi, erano gli unici occhi aperti sulla vastità del buio e i ricordi, per quanto egli provasse a tenerli a distanza, non cessavano mai di bussare alla porta della sua coscienza; erano sempre poco al di sotto della superficie e risvegliavano il suo cuore intorpidito, fluendo e rifluendo come le onde di un oscuro oceano indomabile. Non c’era oblio per lui e forse non ci sarebbe mai stato, ma non osava mai indugiare più di tanto sulla soglia di quel timore: aveva bisogno di credere che in un futuro prossimo e indefinito, senza più neppure lo scandire del tempo a fargli compagnia, senza né giorni né notti, la sua essenza si sarebbe sciolta dall’abbraccio delle coscienze dei mortali, liberandolo e consegnandolo finalmente a un torpore senza memoria o intelletto. Molte erano le cose che aveva dimenticato, tante di più quelle che continuava a ricordare, dopotutto c’era sempre stato e aveva sempre osservato. A volte, mentre strisciava languido sulla nuda schiena della terra tetra, i ricordi lo colpivano con tale forza, che pareva quasi rivivessero dinanzi a lui. Quanto sangue aveva visto scorrere, quante urla aveva trasportato sulle sue ali leggere! C’erano state le guerre, le morti, le nascite, in un processo di creazione e distruzione che, ingenuamente, egli aveva creduto senza fine. Ricordava con chiarezza adamantina il suono dei sospiri degli amanti, stretti nel caldo abbraccio del loro amore, le note musicali di armoniose melodie che vestivano l’aria di un mutevole mantello, le gocce di pioggia autunnale che si intrecciavano alle sue spire di seta iridescente mentre egli, sbuffando, sollevava in vorticosi turbini variopinti le foglie cadute dagli alberi possenti, piegati dal freddo venturo. Un ricordo, in particolare, sembrava non lasciare mai del tutto la sua mente: era a un tempo il pensiero che più rifuggiva e quello cui più anelava. Per uno strano paradosso, il ricordo che più lo rattristava, quello che più gli stringeva il cuore, era anche quello che lo spingeva a cedere alle lusinghe della memoria, a rivivere tutto. Quel ricordo aveva grandi occhi liquidi, del colore delle cascate, un sorriso candido, racchiuso entro il molle anello roseo di due labbra sottili e corposi capelli ramati che si libravano in tutte le direzioni al suo passaggio. Era poco più di una bambina quel ricordo soave, il giorno in cui l’aveva vista per la prima volta. Ricordava ogni dettaglio, come se il fatto fosse avvenuto solo un istante prima. Soffiava forte quel giorno, muggiva quasi, scorrazzando rapido fra i fiocchi di neve, non c’era altro che bianco intorno a lui, non si capiva dove finisse il cielo e cominciasse la terra, le sue membra ghiacciate non erano più invisibili: aveva indosso la candida neve che sferzava incessante l’aria, zigzagando nel vuoto, fine come sabbia. Dovunque volgesse lo sguardo, non c’era che quel glaciale candore, non un uccello sorvolava l’orizzonte, non un animale attraversava il suo cammino, persino le piante e gli alberi parevano intrappolati nella morsa di vetro del gelo, poi le vide: piccole orme sul manto niveo. Le seguì fino a una radura, fu lì che la scorse. Era da sola, accanto ad un pupazzo di neve, saltellava e canticchiava, la sua vocina tintinnava come un campanello d’argento, portava un soprabito del colore delle fragole mature e scarponcini della stessa tonalità. Ricordava di essersi avvicinato alla ragazzina con una certa titubanza: sapeva bene quanto in fretta gli umani cercassero riparo quando egli si accostava loro, come fuggissero via al suo passaggio, specialmente nei mesi in cui a dominare era l’inverno. Aveva cercato di trattenere il respiro, ma soffiare e fischiare erano cose nella sua natura: aveva ululato forte, mandando spruzzi di neve tutt’intorno e poi si era fermato, certo che la piccola sarebbe scappata, lasciandolo di nuovo alla sua solitudine. Era stato allora che lei lo aveva sorpreso: non era sobbalzata né fuggita via, aveva sorriso, gli era corsa incontro e aveva danzato gioiosamente tra le sue gelide spire, vorticando freneticamente, fino a quando ai suoi occhi non era parsa che una macchia scarlatta. Avevano volteggiato a lungo, finché le gote le si erano fatte rosse e le sue dolci risa non avevano sovrastato il suo fischio e il silenzio circostante. Come aveva amato la vita in quel momento! Per anni l’aveva osservata da lontano e aveva danzato con lei in tutte le stagioni, aveva cancellato con un soffio le lacrime dal suo viso quando era triste, aveva cantato per lei, cullandola nelle notti d’estate e aveva allietato il suo risveglio a primavera con il profumo dei suoi fiori preferiti. Aveva vissuto attraverso di lei, la dolce eterna bambina che lo aveva inconsapevolmente aiutato a sopportare la sua solitudine e il suo perpetuo esilio. Poi, una notte, tutto era finito. Quanto dolore gli procurava rivedere il suo volto, freddo, immobile e quanto odio sentiva ancora, verso colui che aveva reciso il fragile filo che la legava alla vita! Ricordava la pioggia battente, l’asfalto lucido e scuro, chiazzato dalla luce dei fari dei grandi dinosauri metallici che gli uomini chiamavano “auto”; anche quella sera, come il giorno in cui per la prima volta l’aveva incontrata, ella indossava abiti color del sangue, ricordava di aver potuto sentire il suo cuore impaziente tamburellarle nel petto, mentre le camminava accanto. Sul suo volto sottile e pallido, scorrevano lacrime lucenti che si confondevano con la pioggia fitta che le scuriva i riccioli rossi. Si guardava continuamente alle spalle, aveva paura, stava scappando: qualcuno la braccava, persino lui poteva sentirne i passi affrettati e il respiro famelico. Non c’era nessuno che potesse aiutarla, le strade erano ormai buie e desolate, lampi purpurei infrangevano il cielo gonfio di pioggia. Aveva visto una grande mano scattare in avanti e afferrarle la gola sottile, ella non aveva emesso che un debole singulto e i suoi occhi si erano spalancati per il terrore, poi era scomparsa, inghiottita nell’oscurità di un vicolo. Quando l’aveva raggiunta, era troppo tardi. Una sagoma scura la osservava a testa china e lei, la bambina che aveva tanto amato, ora donna, giaceva inerte sul nero vellutato dell’asfalto. Il suo volto era esangue e sui suoi grandi occhi vitrei, ormai privi di vita, danzava il riflesso intermittente dei fulmini. Come aveva desiderato di essere fatto di carne e sangue e non solo di memoria e respiro, in quel momento! Le sue urla sibilanti avevano riempito il silenzio, le sue membra avevano schiaffeggiato il volto di colui che le aveva tolto la vita ed egli lo aveva inseguito, ululando e sollevando zampilli di pioggia, mentre scappava nella notte, in cerca di riparo dalla follia che lo aveva condotto a quel brutale gesto. L’orrore di quella notte perseguitava il suo spirito da tempo immemore. Era tornato da lei, infine: non poteva sopportare il pensiero che stesse da sola, l’aveva vegliata, cantando per lei fino a che la pioggia non era cessata e la luce dorata dell’alba non aveva acceso l’orizzonte. Era questo il ricordo più tenero e terribile che il suo cuore racchiudeva e, per quanto lo facesse soffrire, non poteva fare a meno di rievocare il trillo infantile delle sue risa così come il tetro pallore del suo viso esanime; ma più di tutto, egli ricordava quel giorno magico. Il giorno in cui lei, poco più che bambina, aveva danzato fra le sue braccia trasparenti, sul biancore scintillante della neve. Aveva fatto sì che amasse gli umani, quella piccina che sempre danzava e cantava tra le sue spire come una farfalla leggiadra e glieli aveva fatti odiare anche, perché, per mano di uno di loro, tale e quale a quella di una farfalla era stata la sua vita: breve, effimera, meravigliosa e fugace come la scia di una cometa. Sempre quel ricordo sarebbe riemerso dalla sua memoria e per sempre a esso egli avrebbe ceduto. Troppo dolce era la rimembranza del loro danzare sulla neve, perché la potesse dimenticare, pensò il vento, mentre creava dune nella sabbia morta, scavando solchi con il suo respiro perenne: l’avrebbe rivista danzare come una farfalla vermiglia, giorno dopo giorno, notte dopo notte, finché non ci sarebbe più stato un mondo su cui soffiare e anche per lui non sarebbe giunta la fine e con essa, un meritato riposo senza più colori, fra le braccia di un sonno senza sogni né ricordi.
Edited by slayercetty - 30/6/2012, 01:12
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