| A SILVIA Non poteva essere che lui. Dopo vent'anni, affiorava con quell’idillio da una cigolante memoria, un tempo assiepata nel vento degli anni giovanili. Silvia, rimembri ancora Quel tempo della tua vita mortale, Quando beltà splendea Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi, E tu, lieta e pensosa, il limitare Di gioventù salivi? [...]
I versi proseguivano, belli come non mai, rievocati nel foglio per niente sgualcito, con quella grafia insicura, vergato da chi non aveva più fatto della scrittura l'abituale compagna della propria vita. Potevi vederci la mano callosa del lavoratore, ma anche la cura ossessiva del tratto, che faceva tutt'uno col respiro del verso, l'estetico colore dell’immaginario. Vedere era già leggere. Quelle lettere vergate nient'affatto davano il senso dell'abbandono del grafema, deiezione del suo freddo apparire. Quei deformi segni tentati avevano una voce sicura, rubata all'autore, il vero autore, per divenire voce comune dell'animo. Il mio e il suo animo, quello di Leopardi, amico mio disperso. Era tornato. La cassetta postale aveva ancora una volta ingoiato stancamente una lettera imbustata, come quella lettera che trattenevo incredulo fra le mani, custodendo la quotidiana attesa che mi accompagnava ormai da molti anni. Dopo la calma di vento, si riaffacciava una spinta di bora, complice forzata dei nostri giochi, come delle nostre scorribande mnemoniche, che adesso riaffioravano in me con quei versi. Leopardi era tornato in una giornata di bora scura, pioggia e raffiche che superavano il silenzio e lo spazio, impacchettando e inchiodando in scuotimenti di membra i malcapitati, che pur dovevano per forza di cose recarsi ai loro affari. Egli giungeva sempre così, come tanti anni addietro era comparso nella mia vita di studente di liceo. Mi piaceva girovagare per Trieste, ubriaco di raffiche indomite, che sgomitavano irritate più che mai, per ogni accadimento del mondo. Mi piaceva concepirla così, attenta a ogni evento, con quell'aria punitiva, che schiaffeggiava tutti indistintamente, a rimettere in ordine gli eventi del mondo. Leopardi sedeva in fondo all'aula. Scriveva, scriveva: poesie. Ricopiava Leopardi, quello vero, A Silvia, La sera del dì di festa, Alla luna... Glielo chiesi. - Perché? - Le parole parlano. - Lo so. - Voglio dire, le parole scritte parlano da sole. Senza che tu le legga. Affiorano agli occhi, anche senza di te, senza la tua coscienza. Sono versi che si dicono da soli. - Senza un lettore, le parole tacciono. - E tu le reciti! A memoria. - Senza leggerle? - Le leggi per ascoltarle e farle tue, nella tua casa interiore. A casa di Leopardi ci arrivai una domenica mattina, dopo messa. La bora rinforzava col passare dei minuti. Mi allargai per Cavana, con le case truci e scollate del Ghetto. Il freddo rendeva poco efficace il mio eskimo, che tanto andava a quel tempo. Me lo trovai davanti, mentre usciva da un portoncino scrostato e con la vernice verde incartapecorita dagli anni e dall’umidità. - E tu che ci fai qui? - mi chiese, giusto per dire qualcosa. - Vado. - Con questa bora del diavolo? - È una sfida. - Con chi? - Col mondo. Sfogo la rabbia che mi porto dentro. - Va là che la vita ti va bene! Tuo padre fa l'ingegnere, hai una casa che non ti dico, a scuola sei fra i migliori… - Tu sei meglio. Le frasi giungevano forzate alle orecchie, sospinte dal ringhio del vento. - Ti offro un tè. Mi trascinò dentro. Suo padre dormiva. Faceva il panettiere, partiva a notte fonda. Di giorno dormiva. La mamma era a servizio. - Perché sempre Leopardi? - L'imparo a memoria. - E questo che c'entra col perché. - Leopardi non è parola. É suono, è voce del vento che ti prende dentro, è ricordo del silenzio triste e lacerante del mondo, fa di te quel che tu non vuoi. Vive tra pianto e gioia, ma è sempre forza. - Tutto a memoria? - Ci provo. Anch’io fui travolto da quell'ansia folle. Fu il vento il nostro maestro, cura del ritmo, puntello della memoria, senso completo, urlato all'alba come al tramonto, sulla Piazza dell’Unità come al limite del molo Audace, spina nel fianco del mare plumbeo e incattivito. Non potevi recitare Leopardi nella bella stagione, quando la forza del vento portava profumi di luce e azzurro fiore. La cattiva stagione era quella giusta per recitarlo. Si partiva sempre da casa sua, in Cavana, proseguendo lungo le rive, al passo che la bora voleva darci. Iniziava Leopardi a recitare i versi, che più in quel momento lo ispiravano. Urlati, quando il fischio del vento nelle orecchie impediva la nostra voce. Sussurrati, quando la bora si zittiva. Veloci, incalzati dalle raffiche che ti sospingevano alle spalle. Lenti e ansimanti, quando la bora ti ostacolava il passo. Le poche auto le scansavamo sapientemente, sovente persi nelle viuzze di Città Vecchia. Toccava a Leopardi: - Sempre caro mi fu quest’ermo colle, e questa siepe, che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. E poi a me: - Ma sedendo e mirando, interminati spazi di là da quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quïete io nel pensier mi fingo; ...
Ci innamorammo della stessa ragazza. Un anno più giovane, in prima D. I versi di Leopardi non avevano più nulla da dirci. Non ci salutammo più. E la bora adesso la odiavamo entrambi. Ma non poteva durare. Fu Piercarla a dirci basta, lei voleva andare al Giardin Pubblico con entrambi, ma non voleva stare con nessuno. Nemmeno un bacio. Decidemmo per una tenzone sul filo della memoria, la nostra. Nessuno seppe. Stilettate di versi, sotto il passo incalzante del vento. La bora era nostra segreta testimone, stimolo alla vita, rabbia dei giorni più impervi, quelli della nostra adolescenza. Recitammo insieme, all'unisono, sospinti da un vento truce, che ci ostacolava nell'arrampicata, lungo via San Michele, irta e stretta fra asburgici palazzi. Verso dopo verso, idillio dopo idillio, lirica dopo lirica, non un errore, memoria perfetta, entrambi, urlata, sovrastata solo dal vento, graffiante. Il passo cedeva, il respiro tradiva, “Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, silenziosa luna? Sorgi la sera, e vai, contemplando i deserti; indi ti posi. Ancor non sei tu paga di riandare i sempiterni calli?”. Le parole si affacciavano alla mente, preghiera recitata insieme, imprecata, “O graziosa luna, io mi rammento che, or volge l'anno, sovra questo colle io venia pien d'angonscia a rimirarti”. Leopardi, quello vero, cedeva il suo canto poetico alla sfida, che si preannunciava impari. “Sempre caro mi fu quest’ermo colle”, perché Giovanni, che noi tutti chiamavamo Leopardi, era più bravo di me, “La donzelletta vien dalla campagna, in sul calar del sole, col suo fascio dell’erba; e reca in mano un mazzolin di rose e di viole”. Recitammo in coppia, proseguendo per la città. Poi cedetti, di fronte alla sua memoria, fresca, lunga, interminabile. In essa si spegneva ogni competizione.
Piercarla scelse lui, ci perdemmo di vista. Non per la sconfitta. Seppi che suo padre s'era lasciato andare. Il molo Audace per molti era tomba di speranza, a zittire la follia quotidiana che ti sale dentro. Bastava una raffica decisa, severa. Rimetteva in ordine il mondo, per lasciare che il mondo decidesse. Giovanni lasciò la scuola, faceva il muratore; sua mamma la sarta, ma si guadagnava poco. Ci perdemmo di vista. Piercarla scelse lui. Non le interessava il dott., amava il mio amico, anche se i suoi la scacciarono di casa. Aveva appena finito il liceo e dava ripetizioni. Campavano. C'incontravamo di rado. Io raffinato, lui le mani dure. Ci volevamo bene di nascosto, ma non ci frequentavamo. Col tempo, Trieste divenne immensa per noi due, una metropoli, anche se piccola e insofferente di sé. Puoi, nella nostra severa città, ritrovare ogni giorno le stesse persone, anche se giungono da lontano; oppure non rivedere mai più chi ti abita accanto, perso nel formicaio che unisce uomini, case e vento. Si vive di rimpianti, nella nostra città. Fino a quando un portiere si presenta alla tua porta di casa con una lettera, che rimette il tempo e lo spazio nello stesso ordine. Non poteva essere che lui. Dopo vent'anni, affiorava con quell’idillio da una cigolante memoria, un tempo assiepata nel vento degli anni giovanili. Silvia, rimembri ancora Quel tempo della tua vita mortale, Quando beltà splendea Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi, E tu, lieta e pensosa, il limitare Di gioventù salivi?
Mi ero laureato ormai da molti anni e insegnavo nello stesso liceo, lettere. Ma Leopardi mi dava ormai ai nervi. Lo facevo perché dovevo. - È bello, - continuavano ogni anno a ripetermi gli studenti. Ci è vicino, una natura matrigna, che si affaccia nel silenzio degli anni, mentre ti fa donna o uomo. Odiavo Leopardi, perchè mi sentivo colpevole. Dopo quella lettera, Giovanni mi aspettò una mattina sotto casa. Le cose non andavano. “Silvia rimebri ancora”, s’era messo in proprio, ristrutturazioni, “quel tempo della tua vita mortale”, sua figlia gli costava, leucemia. Ogni tanto ci aspettava un caffè nero, all’aperto, nella stagione calda. C’eravamo ritrovati dopo vent’anni. Ma stavamo per lasciarci ancora, a nostra insaputa. Non avrei dovuto uscire in quel giorno di bora. Non potevo non incontrare Leopardi: c’era sempre, nella bora, anche quando non doveva. Su quella maledetta impalcatura, nei giorni di forte vento non ci potevi stare. Ma Leopardi aveva bisogno di soldi, non bastavano mai. Sua figlia, la salute vacillava, le cure a Milano. Lavorava anche la domenica, anche nei giorni di bora, anche quel giorno, anche su quella maledetta impalcatura, anche sulla facciata della mia casa in ristrutturazione, anche per me che stavo per sposarmi e lasciare i miei, agonizzanti di dispiacere per avermi perso. - Vieni giù di lì. Non è tempo, oggi. Il vento puntellava le nostre parole con un fremito costante e strafottente. - Devo lavorare. Ricordi? “Forse in qual forma, in quale stato che sia, dentro covile o cuna, è funesto a chi nasce il dí natale”. - Lo farai domani! - Domani sarà tardi. È sempre tardi per tutto. È tardi per studiare, tardi per avere una figlia sana, tardi per averti come amico. - Io sono tuo amico. - Non c’è spazio per noi. Tu sei in alto, io in basso. - E’ vero il contrario. Ho imparato da te l’amore per la letteratura. Sei sempre stato il migliore. Il vento incalzava. - Scendi! Non ti è bastato tuo padre? - Io lavoro, mio padre non c'entra. Una forza ribelle mi scosse. Mi aggrappai all'impalcatura, scuotendola con rabbia. Dovevo esserci io su quell'impalcatura. Io che a suon di ripetizioni ero andato avanti. Leopardi era bravo, il migliore, ma la vita lo aveva rigettato indietro. Mio povero Leopardi. Una raffica si abbatté ben oltre i 150 chilometri orari, credo. Sentii scricchiolare i tubi e gli assi, balzai lontano fin dove potevo, per quel che la bora mi consentiva. Venne giù il pandemonio, e con esso il mio povero amico. Vivo di rimorsi, ora che la vita si sta spegnendo all’orizzonte. Ho vissuto secondo coscienza, ma ho perso quel treno che mi avrebbe fatto migliore. La rabbia di quel giorno aveva causato quel terribile incidente. Senza i miei scossoni la struttura poteva resistere. Era colpa mia. Piercarla non mi avrebbe mai perdonato. Per anni evitai d’incrociarla per strada, per anni ho vissuto una vita tranquilla con mia moglie, senza mai dichiarare le mie responsabilità. Non abbiamo voluto figli, io non li volevo, dovevo espiare, odiare Leopardi, odiare quello status ascritto che per nascita ci fa ricchi o poveri, e tutti infelici. Ho chiesto a mia moglie di consegnarti questo diario, solo dopo la mia morte, cara Piercarla. Ho troppo sofferto, col rimorso che mi porto dietro da un’eternità. Non potevo portare la mia colpa con me. Ti affido la mia anima, così come l’ho affidata alla mia cara moglie, che custodisce questo diario per te.
- E questo è tutto, - dice la donna, che per tutta la vita è stata “la moglie del professore”, anch’essa insegnante. Richiude il nero e consunto quaderno. Piercarla lascia scivolare sul tavolino ovale e intarsiato con la sapienza di un antico ebanista, la sua tazza di tè. Ha ascoltato con attenzione. Le mani secche e puntellate di lentigo senili, a marcare gli anni come gli anelli per l’albero, le danno rigore morale. - Fu un incidente, - dice. - Quel giorno c’ero anch’io, in disparte. Stavo portandogli un po’ di minestra sul lavoro. Fu la bora. Quando tuo marito scosse con violenza l’impalcatura, la cima stava già cedendo, “negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi”, corsi più che potevo, ma invano, era impossibile fermare il mondo, “e tu, lieta e pensosa, il limitare di gioventù salivi?” Si vive così, nel rimorso senza colpa, così come si è colpevoli di non aver rimorsi. Qualcosa passa nei suoi occhi acquosi. - Vado, - conclude. S’incammina in silenzio, stringendo il diario al petto vuoto. “All’apparir del vero tu, misera, cadesti..." Si ferma, tende l'orecchio: - Ma chi recita questi versi di Leopardi? - domanda prima di uscire. - Tuo nipote è di là, nel mio studio. Viene a lezione da me, non lo sapevi? Dicono che al liceo sia il migliore. Viene qui per saperne di più, non perchè non sappia. Lo chiamano Leopardi, come il nonno. Conosce migliaia di versi a memoria. Ecco, senti? <i>“Godi, fanciullo mio; stato soave, stagion lieta è cotesta. Altro dirti non vo'; ma la tua festa ch'anco tardi a venir non ti sia grave”. La bora s’intromise negli spiragli della porta, che poi s’aprì, e lasciò che Piercarla si riaffacciasse, per quel che poteva, al suo mondo.
Edited by DOMENICO MANTOVANI - 25/6/2012, 18:06
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