| Il gatto. Certo, è stato il gatto. È stato il gatto a picchiarmi selvaggiamente l'altra notte. È stato il gatto, nel vicolo. È stato il gatto, dopo avergli accarezzato i testicoli. Certo. Il gatto. Fuori da quel pub, alle due di notte. Tra brutte facce che ti fanno capire che sei andato troppo oltre. Troppo oltre. Non ho mai capito cosa fosse il troppo oltre. Non ho mai capito. È per questo che torno sbronzo anche dal Salone del Libro di Torino. È per questo che torno sbronzo anche da lì. Da lì, dove il vino ha poco a che fare. Poco a che fare. Eppure, torno sbronzo. Seduto sul mio sedile, in attesa di arrivare a casa. Di arrivare a casa, sbattermi la porta alle spalle, sbattermi al tavolo. Sbattere un bel bicchiere vuoto sul legno, sbattere una bella bottiglia di liquido scuro. Una bella bottiglia di vino. Sento già la gola secca. La gola arsa dalla voglia. Io non posso farne a meno. Non posso. È più forte di me. Non posso fare altro che perdermi nell'alcool. Lasciarmi cadere nella perdizione, lasciarmi smarrire. Perdere qualsiasi contatto con la realtà tangibile. Creare un velo di invincibilità tra me e il prossimo. Un velo animale. Un velo istintivo. Un velo senza controllo, senza razionalità. Senza ricordi. Un velo di nulla. Non posso farne a meno. Non posso fare a meno di galleggiare nel mio stesso vino. E vomitare ogni giorno le mie giornate nel gabinetto. Vomitarle acide e corrosive. Acide e pesanti. Acide e basta. Non posso farne a meno. Il mio gatto. Il mio gatto, gli ho detto. Il mio gatto, ho detto all'autore che si trovava con me allo stand. Lo stand del mio editore. Lo stand dove avrei dovuto promuovere il mio libro. Il mio lavoro. La mia anima. Quel briciolo di irrazionalità che riesco a salvare. Quel briciolo di vita che non si inabissa completamente. Che non svanisce nel cesso appena tirato lo sciacquone. Quel briciolo di luce che rimane. Alla fine. Alla fine, qualcosa rimane. Parole sparse e senza senso. Parole dettate da qualcun altro. Io non ci sono. Io partecipo. Io partecipo e bevo. E schizzo inchiostro e carta. E penso che in fondo ne vale la pena. In fondo ne vale la pena. È l'unico regalo che mi dona la mia dipendenza. È l'unico regalo che mi fa la mia compagna. La mia droga. La mia vita d'abisso. La mia vita d'abisso mi toglie tutto. La mia vita di ricordi sbiaditi mi strappa tutto. E mi lascia parole senza senso. Parole sconnesse. Poesie. Poesie, le chiamo. Poesie. L'unica cosa che resta oltre il tavolo e il bicchiere di vino. E le tasse, e l'affitto da pagare. E l'assegno che mamma elargisce ogni mese. Per farmi sopravvivere. Sopravvivere. Se sapesse come lo spendo. Se solo sapesse. Forse sarebbe meglio. Forse sarebbe meglio morire su questo treno, nel ritornare a Milano. Forse sarebbe meglio. Meglio farsi trasportare sul ciglio dei binari, farsi travolgere. Meglio rimanere sulla ghiaia, uno scheletro per i passanti. Uno scheletro. Meglio. Perchè alla fine restano solo poesie. Solo poesie che non sono riuscito a promuovere. Non sono riuscito a vendere. Troppo ubriaco. Ero ancora troppo ubriaco. E non riuscivo, non riuscivo a ragionare. E la mia puzza di vino avrebbe dovuto darmi imbarazzo. Avrebbe dovuto. Ma come sempre, non sentivo. Non sentivo la vergogna. Non sentivo la vergogna, inabissata sotto l'alcool. Non sentivo la vergogna, mi sentivo invincibile. Mi sentivo soddisfatto. Arrivato. Un Dio. Bacco, Bacco in persona. E a quello stand, non ho spiaccicato parola. A quello stand, sono rimasto in silenzio. A guardare la gente passare. Ad aspettare il mio tempo per tornare a casa. Tornare a casa, al mio vino. Tornare a casa, al mio tavolo. Dimenticando quel ragazzo pieno di vita che si ricordava di me. Dimenticando quel ragazzo straripante che ricordava il mio taglio. Ricordava il taglio sul mio sopracciglio, nel nostro viaggio di andata. Nel nostro viaggio di andata, e nemmeno mi conosceva. Dimenticando quel ragazzo troppo pieno di vita. Troppo straripante. Troppo entusiasta. Troppo pieno. Io non sopporto la pienezza. Io non sopporto lo straripare. Fondamentalmente, io non sopporto la vita. Eppure, lui è stata l'unica persona con cui ho spiccicato parola. Lui è stata l'unica persona con cui il mio istinto ha parlato. Con cui l'alcool ha parlato. Mentre io rimanevo a guardare, dietro gli occhi. Mentre io rimanevo a guardare, aspettando di tornare a casa. Non vedendo l'ora di tornare. Non vedendo l'ora di tornare. Al mio bicchiere. Il mio bicchiere. Il treno che traballa sotto il mio sedere. La ferita sul sopracciglio che ancora fa male. Il vagone mezzo vuoto. Borbottante. E io che penso a ricordi già svaniti. Ricordi di un libro tenuto in mano. Ricordi di qualche poesia sfiorata con le dita. Ricordi del mio odore d'alcool, e della solitudine in mezzo a tanta gente. La solitudine. Io odio la vita. Io odio la vita, e ora me ne torno a casa. Ora me ne torno a casa. Andato a Torino a portare un nome non mio. Un nome non mio. Puccio Chiesa. Puccio Chiesa, su quel libro. Puccio Chiesa, su quelle poesie. Se solo mia madre sapesse. Se solo mia madre sapesse. Se solo ricordassi come diavolo mi chiamo. Ma sono troppo ubriaco. Troppo ubriaco. Lascio l'istinto viaggiare. Io osservo dietro le pupille. Mi nascondo dietro le pupille. Non vedo l'ora di essere a casa. Non vedo l'ora di essere morto. Nell'alcool. Affogare nel vino. E lasciare il mio istinto vivere al posto mio. Io odio la vita. Odio la vita.
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