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Stella e Palmella (...e il dolore che le unì)

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view post Posted on 27/5/2012, 10:42
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Fabrizia

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Stella e Palmella (...e il dolore che le unì)
Sonia Galdeman


Palmella era una morettina dai capelli lunghi fino alle spalle, dritti come fili d’erba. «Se piovessero perle si infilerebbero tutte sui tuoi capelli» le ripeteva sempre la mamma. Occhi scuri come la pece, orecchie un po’ a sventola, alta e slanciata, sempre in movimento. Aveva diciassette anni quando la mamma se ne volò in cielo e il papà, non reggendo alla sofferenza per la perdita ed incapace di frequentare gli stessi posti, decise di trasferirsi dal centro di Roma alla periferia, in una piccola casa diroccata fuori città.
La morte della persona a lei più cara aveva reso Palmella irriconoscibile: un dolore che non riusciva a colmare le lacerava il petto tanto da non permetterle più di parlare e da toglierle talvolta il fiato. Si era chiusa in se stessa e il suo sguardo e i suoi occhi non riuscivano a mascherare lo strazio del suo animo ferito. Piangeva singhiozzando nel silenzio assordante della sua stanza.
Odiava il papà che l’aveva costretta ad allontanarsi da tutto ciò che le ricordava la mamma, dal buon odore della biancheria appena lavata, dalla sensazione di morbidezza provata ogni qual volta sfiorava la tovaglia di fiandra, acquistata con lei a un mercato rionale. Non poteva più aprire l’armadio e affossare la testa nel golfino di maglia grigio preferito della mamma, che odorava ancora del suo profumo, un’ essenza orientale che fondeva l’aroma forte del sandalo e della cannella con quello più delicato del miele. Gli unici ricordi che Palmella avrebbe potuto portare con sé sarebbero state le foto che aveva raccolto, catalogato e numerato con cura in vari album dalla copertina beige. Non avrebbe mai potuto separarsi da quei pezzi di carta sbiaditi, tanto che continuava a girarli e a rigirarli tra le mani, fissandoli per ore, fino a perdersi nei ricordi che le facevano dimenticare la realtà. Accarezzandoli, chiudeva gli occhi e sognava che la madre le fosse accanto, la baciasse sulla fronte, le sussurrasse una parola all’orecchio. Poi lo squillo del telefono o la campana della chiesa la ridestavano e la riportavano alla realtà: una gelida lacrima le rigava il volto, poi un’altra e un’altra ancora; allora Palmella si affrettava a spostare le foto, affinché non si rovinassero. Era certa che tutte quelle sue lacrime non si sarebbero mai esaurite. Era sicura di possedere all’interno del suo animo un serbatoio inestinguibile di dolore che le avrebbe schiacciato il petto per il resto della vita. Era convinta che i singhiozzi, che le rendevano gli occhi lucidi e il naso gocciolante, non l’avrebbero mai abbandonata.
La decisione di cambiare casa presa del padre era incontestabile ed irremovibile cosicché poche settimane dopo, nell’illusione che abbandonando un posto familiare si potesse allontanare anche il dolore, padre e figlia si trasferirono nella nuova abitazione. Palmella sapeva che non sarebbe stata una soluzione valida per colmare il loro vuoto. Non sarebbe mai stata in grado di chiudere a chiave la sua sofferenza in una casa a chilometri di distanza: la sua disperazione la seguiva come un’ombra, facendole dimenticare come sorridere.

Era una casettina dai muri rossi, con una piccola terrazza la cui ringhiera era dipinta di verde smeraldo, dalla quale sporgevano penzolanti rigogliosi gerani pennellati di rosa e screziati di bianco. Le ampie finestre facevano entrare una grande quantità di luce, che, filtrata da leggerissime tende arancioni, illuminava la stanza in una danza di colori. C’era un porticato, sorretto da quattro pilastri, sotto al quale erano accatastate tre sedie e due panche, un tavolino di legno e un ombrellone da sole: Palmella avrebbe dovuto ripulirli e spolverarli accuratamente, ma immaginava già che sarebbero potuti diventare l’arredamento ideale del suo angolo relax. Si sarebbe accovacciata a gambe conserte su una panca, avrebbe continuato la lettura del libro che aveva appena cominciato, sarebbe stata in silenzio a guardare gli uccellini, riflettendo. Avrebbe assaporato la bellezza del paesaggio, lasciandosi accarezzare dai tenui raggi di sole, saltellando di pensiero in pensiero, cercando di rivivere le sensazioni ancora forti frutto di ricordi lontani.
C’era anche un orticello pieno di cavolfiori e verze e circondato da un lembo di terra dove le foglie di numerose piante di fragoline selvatiche si intrecciavano fra di loro. Nel piccolo giardino erano piantati arbusti di rose rampicanti che si inerpicavano sui pilastri e sulla grondaia. Tra una pianta e l’altra sbucavano dei fiorellini dalle tinte pastello che Palmella non aveva mai visto e che non sapeva identificare, ma dei quali si ripromise di cercare il nome scientifico in uno dei numerosi libri di botanica del padre. La rete che circondava il giardino era diventata quasi invisibile in quanto coperta da rampicanti dalle foglie lunghe e larghe i cui fiori, a forma di campana, emanavano un profumo dolcissimo. Su uno dei pilastri della casa si attorcigliava prepotentemente una decennale pianta di glicine, i cui rami si incastravano tra un mattone e l’altro, lasciando cadere tenui grappoli violacei. Palmella sarebbe rimasta per ore col naso all’insù, affascinata dallo spettacolo che la natura le offriva e che non aveva mai avuto modo di apprezzare quando viveva in città.
Era una casa carina, non c’era dubbio, ma non era la sua. Non era quella nella quale aveva vissuto con la madre e condiviso con lei emozioni, sorrisi, battibecchi e piccoli problemi adolescenziali.
Palmella aveva conosciuto da un paio di giorni i vicini di casa, Anna e Cesarino, i proprietari di un vecchio casolare con annessa fattoria: sembravano molto gentili e affabili. Lui, un po’ cicciottello, indossava sempre una camicia a quadri stretta da logore bretelle nere, come gli uomini di trent’anni prima, lei, sorridente e con addosso sempre un grembiule chiazzato di sugo, sembrava stesse cucinando a qualsiasi ora della giornata.
Un giorno, mentre Palmella si sforzava di rispondere a monosillabi alle petulanti domande di Anna, si sentì improvvisamente circondata da cagnolini festosi ed invadenti che la signora non esitò a presentarle.
Molli, tutta nera, col pelo arruffato, molto impaurita, schiva ma incuriosita dalla nuova presenza, saltava di qua e di là come una trottola: Anna le spiegò che il giorno prima le aveva tirato una scarpa e l’aveva colpita, ed era per questo che si comportava in maniera così strana. Cinesina, una femmina incrociata col volpino, cordiale e rispettosa, dagli occhi dolcissimi, faceva a gara con Luna, una minuscola cagnetta nera, buffa e rattrappita per attirare l’attenzione di Palmella. Lady, una mostriciattola, nel senso più buono della parola, tutta occhi e gambe, spariva di fronte alla stazza di Tommy, un labrador che, sebbene fosse legato alla catena, saltava irruente da un posto all’altro, cercando di convincere la nuova arrivata a liberarlo e a giocare con lui; sembrava un vulcano pronto ad esplodere da un momento all’altro o una valanga in grado di travolgere tutto e tutti.
Fu però Stella ad attirare in modo particolare l’attenzione della ragazza. Girava con un collare logoro al quale era agganciato un batacchio che toccava il suolo e che sbatteva sulle zampine ogni qual volta faceva un passo. Stella era schiva, non si avvicinava agli uomini, non si faceva accarezzare, restava in disparte a controllare la situazione, pronta a difendersi. Due enormi occhi azzurri come il mare, carichi di una profonda tristezza e malinconia, catturarono in maniera disarmante l’interesse di Palmella. Restia al contatto, spesso ringhiava: sembrava cattiva, ma in realtà indossava una maschera, una corazza per far sì che nessuno potesse più lacerarle l’animo. Stella arruffava il pelo come un gatto e spalancava la bocca ogni qual volta qualcuno che non conosceva posava lo sguardo su di lei. Digrignava i denti e ruggiva come un leone. Non si faceva toccare ed era riluttante anche ad accettare il pezzetto di panino che Palmella le offriva nei giorni in cui, seduta sulla panca del porticato, si godeva il tiepido sole primaverile.

Quei cani erano apparsi nella sua vita come un piccolo spiraglio di luce nella notte buia. Lei aveva sempre adorato gli animali, anche se, nell’appartamento a Roma, visto lo spazio molto limitato, aveva da sempre potuto tenere solo una tartaruga d’acqua e il merlo indiano di papà, al quale aveva tentato, tanto pazientemente quanto inutilmente, di insegnare qualche parola.
Palmella nel corso dei giorni era riuscita a fare amicizia con tutti i cani, soprattutto grazie al fatto che condivideva con loro parte del suo pranzo. Coccolava con tenerezza Lady e giocava con l’irruente Tommy, il quale, quando era slegato, correva verso di lei maestoso ed invadente, con la stessa carica di un terremoto, costringendola a scansare più cose possibili per evitare che le azzannasse e le riducesse in pezzi.
Aveva scoperto che Lady e Stella, la notte, si rannicchiavano sul tappeto della sua nuova casa, cosicché lei dapprima aveva sistemato un cartone per far sì che stessero più comode e all’asciutto, poi un tessuto, poi una scatola con dentro un cuscino.
Il dolore per la perdita della mamma le bruciava dentro ancora come fuoco vivo, ma distrarsi con quei cuccioli la aiutava a non pensare a come l’orrendo male si fosse impossessato della persona a lei più cara portandogliela via. Giocare con loro ed accarezzarli, coccolarli, a volte anche pettinarli era la miglior medicina che potesse farle ritrovare pian piano il sorriso.
La sua sfida rimaneva Stella. Voleva conoscerla ed avvicinarla: era l’unica che se ne stava ancora in disparte, titubante e diffidente. La sentiva molto simile a lei e intuiva che la corazza che la cagnetta aveva deciso di indossare nei confronti di chiunque le si avvicinasse serviva per proteggersi da chi in passato l’aveva fatta soffrire.

Qualche giorno dopo, a causa delle insistenti richieste di Palmella, che aveva ritrovato anche un po’ di loquacità e confidenza, la signora Anna le raccontò la storia del cane che tanto la affascinava. Stella era nata da una numerosa cucciolata di Cinesina e la nipote di Anna l’aveva scelta come cucciolo da compagnia, strappandola immediatamente all’affetto della mamma, per portarla nel paese vicino, dove abitava. Nonostante il prematuro distacco, la cucciola si era ben inserita nella nuova famiglia, abituandosi a stare un po’ in casa e un po’ in giardino, sempre coccolata, riverita e al centro dell’attenzione. Sei anni più tardi, la nipote aveva deciso di prendere anche un cane di razza, un beagle, che proprio non riusciva ad andare d’accordo con Stella, la quale si considerava l’unica padrona di casa, abituata ad ottenere cure e attenzioni in maniera esclusiva; era diventata scontrosa, gelosa e dispettosa ed era stato impossibile gestirla a causa dell’incompatibilità col nuovo arrivato e delle disastrose conseguenze che ne erano scaturite. Così dopo sei anni la nipote aveva deciso di restituirla come un pacco postale al mittente, e Anna era stata costretta a tenerla per settimane legata alla catena per evitare che scappasse o si dirigesse verso la strada, nonché per proteggerla dagli altri cani. Poi, dopo quasi un mese, aveva provato a scioglierla, ma, per precauzione, le aveva messo al collo quella specie di campanaccio, in modo da controllare i suoi movimenti ed impedirle di allontanarsi.
Stella, una volta libera, per i primi tempi si era dovuta difendere con tutte le sue forze dagli attacchi degli altri animali padroni di casa, ringhiando, starnutendo, arruffando il pelo e guaendo, indossando quella specie di armatura per evitare che qualsiasi agente esterno potesse nuovamente farla soffrire.
Il cuore di Palmella si spezzò di fronte al racconto di Anna e, se già in un primo momento provava, nonostante tutto, simpatia e voglia di stringere amicizia con Stella, ora non vedeva l’ora di andarle incontro e prenderla in braccio per farle capire che di lei poteva fidarsi perché sapeva cosa stesse provando.
Gli occhi tristi dell’animale si incrociavano spesso con quelli di Palmella, e quest’ultima, anche di fronte ai ringhi e ai sommessi brontolii che uscivano minacciosi dalla bocca del cane, era diventata sempre più comprensiva e tollerante.
Una sera, mentre era rannicchiata sotto le coperte, con la testa sprofondata sul morbido cuscino blu e una mano appoggiata sul comodino vicino alla foto della mamma, Palmella si svegliò di colpo. Spalancò gli occhi e fissò preoccupata il soffitto: un rumore sconosciuto le fece accelerare il battito cardiaco tanto da farle pensare che il petto potesse scoppiare. Dapprima nascose la testa sotto le soffici lenzuola, sperando di essersi sbagliata, confusa o che potesse essersi trattato di suggestione.
Purtroppo i rumori si susseguivano, numerosi e sempre più chiari e Palmella realizzò che non stava sognando e che i suoni provenivano dalla cucina.
Era forse papà? Magari si era alzato per prendere un bicchiere d’acqua…
La sua mente le suggeriva soluzioni poco credibili per cercare di calmare il tumulto di pensieri che le ronzavano fastidiosamente in testa, ma sapeva benissimo che quei tonfi e scalpiccii non avevano nulla a che fare con i passi del padre. Sentiva qualcuno che maneggiava, qualcosa che si muoveva. Il cuore le batteva sempre più forte, lo sentiva rimbombare chiaramente all’interno della gabbia toracica. Ora era fin troppo sveglia, con gli occhi spalancati, le mani serrate a pugno, il corpo irrigidito, le orecchie pronte a captare e a percepire ogni minino nuovo movimento. C’era qualcuno in casa, ne era sicura. Qualcuno che senza troppa fatica aveva saltato la recinzione: era troppo bassa e chiunque, perfino un bambino, avrebbe potuto scavalcarla.
Qualcuno che, usando un po’ di furbizia e la giusta dose d’attenzione per non farsi vedere dai vicini, si era addentrato nel loro giardino, aveva scassinato la serratura della porta o forse sollevato la persiana, ed era entrato in casa. Suo padre le aveva detto che i cardini delle porte erano un po’ arrugginiti e le persiane da sistemare, ma che non aveva ancora avuto modo di ripararle o cercare qualcuno che lo facesse.
Poi il malvivente aveva attraversato il loro corridoio, calpestato senza troppa cura il loro tappeto peloso e si era avviato verso la cucina. Adesso Palmella percepiva chiaramente che i rumori provenivano proprio da quella stanza, sentiva lo scricchiolio dei passi sul parquet, il cigolio caratteristico della porta, il baccano delle pentole e delle tazze che venivano spostate. Ne era sicura: un ladro, approfittando dell’ora tarda e del fatto che la casa fosse abbastanza isolata, stava rovistando tra le loro cose per cercare denaro, oggetti di valore o gioielli.
Palmella si alzò e si avviò verso uno dei pilastri che separava il soggiorno dalla cucina. Inspirò tutta l’aria possibile che i suoi polmoni riuscissero a contenere e si stupì di preoccuparsi del fatto che il rumore del suo respiro potesse essere percepito. Camminava in punta dei piedi, ingannando se stessa fingendo di galleggiare.
Raggiunto l’obiettivo, sbirciò con la coda dell’occhio dal pilastro e lo vide.
Era un uomo, vestito di nero, che con una mano reggeva una pila, mentre con l’altra si apprestava freneticamente a spostare, toccare, cercare ovunque oggetti preziosi o denaro, svuotando e rovistando nei cassetti.
La figura che si stagliava grossa e imponente davanti a lei le faceva così paura da farla tremare. Non sapeva cosa fare e si chiese perché mai si fosse alzata dal letto e non avesse aspettato sotto le lenzuola che il ladro se ne fosse andato. Adesso non avrebbe potuto muoversi da lì, non sarebbe riuscita né a tornare in camera sua, né ad andare in quella del padre, visto che quest’ultima poteva essere raggiunta solo attraversando la cucina. Avrebbe forse potuto urlare per svegliarlo, ma il ladro si sarebbe spaventato e, nel peggiore dei casi, avrebbe potuto aggredirla o ferirla con un’ arma che di certo possedeva.
All’improvviso, dalla porta lasciata semiaperta dal furfante, entrò irruente e spavalda Stella, che cominciò a digrignare i denti ululando, infastidita dalla presenza dell’estraneo. Canini serrati, bocca bavosa pronta a spalancarsi. Pelo ispido rizzato come quello di un gatto arrabbiato. Occhi sbarrati e furenti, che da azzurri erano diventati neri come la pece, preludio dell’uragano che avrebbe potuto scatenarsi se il ladro avesse mosso anche un solo muscolo. Zampe irrigidite, ma leggermente piegate in avanti, pronte all’attacco. Il segugio aveva identificato il nemico ed era pronta ad aggredirlo e immobilizzarlo.
Improvvisamente gli si scagliò contro, azzannandogli la caviglia, poi lasciò per un attimo la presa e cominciò ad abbaiare forte e a ringhiare. Lo riacchiappò pochi secondi più tardi, facendolo cadere sul pavimento e saltandogli sopra il torace. Il ladro spaventato e sofferente era incapace di muoversi e temeva che anche il solo suo respiro avrebbe scatenato nuovamente l’ira del guardiano di casa. Il padre di Palmella si svegliò di soprassalto e, capita la situazione, chiamò prontamente la polizia, non prima di essere corso incontro alla figlia, abbracciandola forte ed assicurandosi che stesse bene.
La brutta avventura era finita e Palmella si avvicinò teneramente a Stella, che finalmente si fece accarezzare. Quell’episodio aveva consacrato l’inizio di un legame indissolubile: un’empatia intuita fin da subito da entrambe le parti, ma che dapprincipio nessuno delle due aveva avuto il coraggio di mettere troppo in mostra.
Adesso avrebbero navigato sulla stessa frequenza d’onda, parlato la stessa lingua e camminato sulla stessa strada. Condividevano entrambe una grande sofferenza e insieme, ne erano ora sicure, avrebbero lottato e si sarebbero fatte forza per superare le avversità che la vita aveva posto sul loro cammino.


 
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2dipicche
view post Posted on 28/5/2012, 20:07




Sonia, dopo essersi consultata con il suo agente, decide che è tutto ok e da il suo benestare...
 
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view post Posted on 29/5/2012, 08:35
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Fabrizia

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Allora grazie a Sonia e al suo agente :D


 
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2 replies since 27/5/2012, 10:42   24 views
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