| "Ecco, la chiave della mia stanza. Domani mattina arriverò verso le dieci, ricordi al bar di farmi trovare il caffè in ufficio". "Certo, dottore. Non c'è più nessuno nel suo piano, vero?" "No, anche stasera sono l'ultimo. Buona serata, giovanotto". "Altrettanto..." replica Alex appendendo la chiave al suo posto e seguendo con la coda dell'occhio il passo flemmatico del dottor Carleri; poi, quando quello finalmente esce, aggiunge sarcastico "... vecchio ciccione! Proprio oggi dovevi fare tardi, eh? Neanche se la fosse studiata... 'sto stronzo!". La buona notizia, ora, è che si ritrova il palazzo vuoto, bello e pronto per inserire l'allarme. Che ha una fretta del diavolo.
Alex gestisce la reception della sede d'una nota federazione sportiva da più o meno cinque anni, un sesto dei suoi, che giusto il giorno prima hanno toccato quota trenta. E proprio il fissare quei due fatidici numeri, il tre e lo zero, in cima alla torta a forma di pene, gli ha smosso dentro un paio di domande inevase da tempo in stato di latenza: che cavolo ho combinato finora? Intendo fare l'usciere a vita? Ecco, no s’era risposto... o meglio spero di no. Ma sono poco più che dettagli. A lui, fondamentalmente, è sempre interessata una cosa sola: suonare la chitarra, avere più tempo possibile per poterla studiare, esercitarsi; e poi provare, provare e riprovare in sala col suo gruppo. Non gli importava più di sentirsi fortunato, come gli ripeteva suo padre, "perché nonostante la crisi hai un posto fisso eccetera eccetera". Proprio così diceva: eccetera eccetera. “No, basta! Sentirsi fortunato porta ad adagiarsi - pensava tra sé Alex - e più che mai in tempo di crisi… che poi dicono bene i Bluvertigo: la crisi è tutt'altro che folle, è un eccesso di lucidità". Per questo, in qualità di fondatore, aveva chiesto con piglio quasi militare alla sua band - che intanto lo guardava con gli stessi occhi coi quali un prete guarderebbe uno che ha appena ruttato dopo aver ingoiato l'ostia - più impegno, più concerti nei locali giusti, più demo da spedire in giro e meno rotture di palle.
È questo il motivo per cui stasera Alex - come accennato - ha molta fretta, molta più di un dissenterico in cerca d'un gabinetto: sono le nove e mezzo e lui, a causa d'un Carleri qualsiasi, sta facendo schifosamente tardi alle prove. Proprio lui che tanto s'era raccomandato! Il resto del gruppo già lo aspetta dall'altra parte della città per mettere a punto la scaletta dei pezzi da suonare al Motor Contest IV, uno di quei raduni di motociclisti barbuti con la risata catarrosa, i jeans lerci e il giacchetto di pelle smanicato anche a dicembre. Toltosi Carleri dai piedi, Alex digita veloce sulla piccola tastiera esterna la combinazione numerica e l'allarme è inserito; lo stabile è a posto, salta quindi in macchina - o, per meglio dire, una Smart piena di graffi e ammaccature su entrambe le fiancate - e parte. Svolta a sinistra e passa di fianco a Sylvie con la ypsilon - come lei stessa aveva tenuto a specificare - ossia la trans che batte sul cavalcavia, all'indirizzo della quale manda un bacio mimato con le labbra e un'eloquente strizzata d'occhio; quella, completamente nuda sotto il trench sbottonato, gli fa Ciao, amore! con voce baritonale, gettando uno sguardo vagamente interrogativo all'interno dell'auto del neotrentenne, lato passeggero, in cui svetta una sagoma scura: la custodia rigida della chitarra. Dopo un breve tratto di strada Alex è già sul raccordo che cinge la città. Qui accelera e s'immette al centro della carreggiata, mentre alla sua sinistra, in terza corsia, le auto sfrecciano come Mirage a quota zero facendo tremare il suo minuscolo abitacolo. Tenta di telefonare al resto della band per avvertire che s'è mosso, anzi, che s'è dovuto muovere in ritardo, ma sono tutti irraggiungibili: la saletta è un garage insonorizzato posto due piani sotto il livello della strada. E tutti sono stati maledettamente puntuali. Pazienza, lui ci ha provato.
Stabilizzatosi attorno ai cento chilometri orari, prende un bel respiro, accende le stereo e mette su i Rammstein; il volante diventa presto un set di percussioni pronto a ricevere i colpi decisi della mano sinistra, che ripete fedelmente gli accenti della cassa, e quelli della mano destra, che seguono invece il rullante. Per la fretta di correre via non si è nemmeno tolto il giubbotto e ora, a furia di fare il batterista da strapazzo, quasi suda. Apre il finestrino e si gusta il vento freddo sferzargli il viso e insinuarsi dappertutto tra i capelli, scombinandoglieli. Chiude gli occhi un momento, strizzando bene le palpebre, e quando li riapre trova così intense le luci date dal rapido susseguirsi dei lampioni che deve socchiuderli un po’: è la stanchezza che si fa sentire. S'era pur sempre sparato nove ore e mezzo di turno, quel giorno; cose che capitano quando chi ti organizza il lavoro è uno che è stato assunto grazie solo a un gran calcio in culo. Al centro d'una sessione niente male di sbadigli, scorge in lontananza le insegne luminose d'un Autogrill e, man mano che s'avvicina, pensa che un caffè non porterebbe che benefici. Ma lo sguardo gli cade sull'orologio del cruscotto e si rende conto d'aver accumulato già mezz'ora di ritardo. Maledice un esponente ecclesiastico a caso, si dà due ceffoni sulle gote fredde - senza esagerare - e accelera ancora, lasciandosi alle spalle sia l'Autogrill sia, soprattutto, il dannato caffè.
Giunto in prossimità della sua uscita rallenta e si trova davanti una sgradevole sorpresa: Men at work, dice il segnale lampeggiante. "No cazzo! Pure i lavori?" urla, mentre l'ira pervade ogni millimetro del suo corpo. A quel punto è costretto a proseguire e imboccare l'uscita successiva, per tornare poi indietro d'un bel pezzo. Un sms scuote il suo cellulare ma poco gl'importa, perché si sta industriando a dividere equamente i più sentiti improperi tra i men at work e quel genio del male di Carleri. Concentra talmente ogni fibra del suo cervello in quel turpiloquio che arriva addirittura a smorzare i Rammstein, perché lo distraggono. Di questo passo, giunge a poche centinaia di metri dall'ultimo incrocio che lo divide dall'agognato traguardo. Lì, come un totem, c'è anche l'ultimo semaforo: la luce verde si cambia prima in gialla e poi quasi istantaneamente in rossa proprio nel momento in cui Alex dà gas, straconvinto d'averla fatta franca almeno per una volta, quella sera. Gli tocca invece inchiodare e un bisbiglio che ha il sapore d’un mantra riecheggia per i quattro angoli del suo abitacolo: stai calmo, stai calmo, stai calmo... La tesi del complotto planetario rompe il guscio dell'assurdo e posa le sudicie zampette sul groviglio torbido dei suoi pensieri; perfino il malocchio, in un momento d’estasi parossistica, riesce a fare un cameo. I tre minuti più lunghi della sua vita. Vede le rade auto sfilare a pochi metri, tagliare agevolmente l'incrocio e proseguire spedite verso chissà quali lidi ameni; al contrario, una di quelle rumorose microcar, più stronza della Salomè di Wilde, sembra fare apposta quella passerella lentamente, solo per deriderlo. È qui che Alex sbotta: passo lo stesso. Fanculo, passo lo stesso! E lo farebbe sul serio se non fosse per un furgone bianco, gigantesco, parcheggiato malissimo alla sua sinistra, il quale copre totalmente la visuale. Ora, di fretta sì - e parecchio anche - ma la prospettiva d'esser falciato via magari da un autobus - che tanto, quella sera, aveva già avuto prova di non essere proprio il cocco della dea bendata - rischia di apparire sgradevole. Meglio lasciar perdere; per il momento ci si può rifare con un'antologia di bestemmie dedicate al proprietario del furgone bianco e ai men at work, serbando però le più belle ed elaborate per quel grassone ributtante di Carleri. Lo scattare del verde tronca il rosario di Alex un attimo prima che Satana gli si materializzi davanti per cedergli ammirato lo scettro degl'inferi. Il suo piede destro, pronto sull'acceleratore, si abbassa bruscamente come la lama d’una ghigliottina e i pneumatici consumati stridono sull'asfalto.
Eccolo, infine, innanzi all'ingresso che conduce giù alla sala prove: è necessario premere il pulsante rosso del piccolo telecomando più vicino possibile alla fotocellula, altrimenti il cancello automatico se ne infischia di aprirsi. Bene, preme il pulsante rosso. Niente. Lo preme ancora: nulla. Di nuovo ma più a ridosso della fotocellula: ritenta. Pigia il pulsante rosso incollandolo alla fotocellula: macché. Prova pure col pulsante blu, che è rotto e si sa ma hai visto mai stasera... No, figurati. Pulsante blu e rosso, attacco congiunto! Morto. Torna in macchina scoraggiato e s'abbandona a peso morto sul sedile, senza più alcuna volontà di reagire. È resa senza condizioni. Inarca le sopracciglia gettando lo sguardo oltre il parabrezza sporco e lì nota una cosa: tutt'intorno è stranamente... buio. Le luci nelle case, gli androni dei palazzi, i lampioni della via: tutto spento. Mentre si volta, il suo sguardo sfiora il cellulare e gli torna in mente l'sms snobbato poco tempo prima, allora lo legge e si cristallizza sul sedile: È saltata la corrente in tutta la zona. No prove. Siamo al pub, vieni lì.
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