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Leo

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view post Posted on 22/5/2012, 17:12
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Fabrizia

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Leo
Cane di campagna
Lido Vannuccini


È una domenica pomeriggio, sono seduto sul divano del salotto. Ho appena visto alla televisione la partita Siena - Inter. Io faccio un po’ di tifo per l’Inter ma questa sera (e non solo) ha giocato male: ha perso la partita. All’inizio del campionato l’Inter sembrava una delle squadre favorite per vincere lo scudetto, ma se va avanti così penso che lo scudetto andrà a far bella figura sulle maglie di qualche altra squadra: forse del Milan o della Juventus. Mia moglie, accompagnata dai miei due figli, è andata a fare una visita ad un’amica, non bene in salute in questo momento. Mi appoggio con la testa al divano, con i pensieri un po’ vaganti, alla ricerca di qualche buona idea nella speranza di passare meno annoiato le ore che mi rimangono del pomeriggio. Odo improvvisamente sotto la finestra, giù nel cortile, il ripetuto abbaiare di un cane. Scosto la tendina della finestra incuriosito e vedo un ragazzo, che non conosco; sta giocando con un cane. Si rincorrono, si divertono; il ragazzo lo chiama per nome, fa un gesto e il cane gli si accuccia accanto. Divertente e simpatico quel giocherellare di un ragazzo con un cane. Faccio alcuni passi per la stanza e mi viene da sorridere. Il pensiero, quasi senza accorgermene, si sposta lontano nel tempo. Un tempo mai dimenticato, che alle volte, in certe circostanze, mi ritorna in mente e anche nel cuore. Mi rivedo anch’io bambino, in compagnia del mio cane Leo, e come quel ragazzo mi diverto, gioco, corro, rido contento; chiamo il mio cane per nome, come un amico. A quei tempi la mia famiglia abitava in campagna, in una cascina un po’ isolata. Avevo una sorella più piccola alla quale piaceva giocare con le bambole; in pratica il mio amico di gioco e di divertimento, quando avevo finito i compiti, era proprio Leo. «Eccoti con il tuo amico a quattro zampe» mi diceva la mamma passandomi da vicino. «No!» rispondevo io un po’ risentito «ha quattro gambe tutte diritte meglio di quelle di Matteo che le ha storte e corte.» Matteo era un mio compagno di classe che non mi era simpatico perché si dava sempre tante arie e credeva di essere il più intelligente di tutti! Ricordi ormai lontani che non ho mai dimenticato. Il tempo della mia fanciullezza, gran parte passato accanto al mio caro Leo! Ed ecco che, ripercorrendo i miei ricordi, con la fantasia, come rivedendo un film, mi viene spontaneo iniziare un colloquio mentale con questo amico, come facevo un tempo, quando gli parlavo con la voce come se lui mi capisse. “Caro Leo” comincio “tu eri un cane, l’animale domestico più vicino e sicuramente più fedele e affezionato all’uomo. Non eri un cane dalle fattezze perfette e dalla presenza imponente. Eri un cane abbastanza alto ma dall’aspetto modesto e anche dimesso nel camminare: velocissimo però quando si trattava di rincorrere o di andare a raccogliere una preda. Sì, perché tu non eri un cane da guardia, ma un cane da caccia. Non ti risparmiavi però ad abbaiare quando qualcuno si avvicinava alla nostra cascina: bastava tuttavia guardarti per capire che non avresti avuto il coraggio di azzannare una persona. Ti ricordi di quella volta che, tranquilli, camminavamo lungo lo stradone sterrato, andando a trovare la nonna, come ogni tanto facevamo? Eravamo a metà strada, io camminavo avanti, tu ti eri fermato ad annusare qualche cosa. Improvvisamente sbucò da una siepe un cane randagio e si diresse verso di me digrignando i denti. Io mi fermai spaventato e istintivamente gridai: «Leo!» Ti vidi sfrecciare al mio fianco come un fulmine. Ti piazzasti davanti a me a difesa dal cagnaccio.
Anche tu digrignavi i denti. Ti posizionasti in atteggiamento di battaglia, pronto a saltare addosso a quel cane, se avesse fatto dei passi avanti. Mai ti avevo visto così aggressivo e minaccioso. Se ci fosse stato lotta tu caro Leo avresti avuto la peggio; ma non ti saresti arreso: avresti lottato con tutte le tue forze pur di difendermi. Per fortuna non ci fu battaglia perché un contadino, che lavorava nei campi, vide la scena, e con nelle mani una vanga corse alla volta di quel cane randagio il quale se la diede a gambe.» Quando andavamo a trovare la nonna, era sempre una festa per me e per te. La nonna aveva una bellissima cagna che si chiamava Onda. Allora eravamo in tre a scorrazzare di qua e di là, divertiti, per l’ampia aia e per i praticelli. C’era poi la merenda: tè e biscotti per me; per te invece una minestrina avanzata dal giorno prima e qualche osso con un po’ di grasso attorno. Io però mi facevo sempre dare un bel pacco di biscotti dalla nonna e al ritorno mi divertivo a tirarli in alto; tu immancabilmente li prendevi e così anche tu facevi una buona merenda. Eri un cane da caccia e spesso mio padre ci portava con sé nelle sue battute. Avveniva che mio padre, qualche volta, non sparasse un colpo; altre volte abbatteva qualche preda. Tu correvi veloce, la prendevi, ti avvicinavi a me e a mio padre e non sapevi a chi consegnarla. Mio padre ti toglieva d’imbarazzo: allungava la mano, prendeva la preda, poi ti accarezzava la testa. Ma tu ti avvicinavi anche a me perché volevi anche da parte mia una carezza di compiacimento! Mio padre mi accompagnava tutte le mattine a scuola con la sua vespetta. Percorrevamo un tratto dello stradone polveroso fino alla strada provinciale. Di qui passava il pulman; io salivo poi scendevo davanti all’edificio scolastico. All’una circa mio padre passava a riprendermi. Tu, Leo, al mattino eri pronto ad accompagnarmi fino alla corriera. Appena mi vedevi con il mio vestito nero pulitissimo, il fiocchetto celeste, dimenavi la coda saltellando, sicuramente contento di vedermi così ben vestito e felice di essermi vicino. Qualche volta tentavi di salire, ma mio padre subito ti bloccava. Finché l’autobus non partiva tu stavi a guardare. Io agitavo la mano per salutare mio padre e te. Mio padre mi rispondeva e anche tu abbaiavi e scuotevi il capo: era certamente quello il tuo saluto. Finite le elementari si trattava di frequentare la prima media, sempre nella stessa scuola. Mio padre ebbe un periodo di lunga malattia; qualche mattina quando mi portava a scuola doveva fermarsi per una tosse stizzosa e per il catarro che gli serrava la gola. Io ebbi coscienza del suo disagio e della sua sofferenza. Gli feci una proposta. Al mattino, che faceva freddo, sarei andato da solo alla strada provinciale: mi avresti accompagnato tu, Leo. Lui magari sarebbe venuto a riprendermi all’una, quando la temperatura era più mite. Mio padre non era tanto contento e nemmeno mia madre; ma io insistetti così tanto che infine cedettero: mi avrebbero però accompagnato nel mio percorso con lo sguardo, seguendomi dietro i vetri di una finestra. Iniziasti così il tuo servizio di unico accompagnatore. Fosti subito compreso della tua responsabilità. Mi stavi accanto nel mio cammino, con la testa alta, guardingo, drizzando gli orecchi ad ogni piccolo rumore. Come le altre volte ti fermavi al pullman finché questo non partiva. Io come sempre ti salutavo con la mano, e tu alzavi le gambe in segno festoso, e di tanto in tanto abbaiando seguivi per un tratto il mezzo pubblico. La nostra cascina era un po’ isolata, come ho detto, e sovente si aggirava intorno alla rete di filo metallico che circondava l’aia e l’abitazione un grosso cane dal pelo nero, imponente nell’aspetto e dal fare aggressivo; era di proprietà di una cascina abbastanza distante da noi. Non abbaiava, ma più di una volta aveva tentato di saltare la rete di protezione per azzannare pollastrelle, colombe, e anche persone che volevano scacciarlo: come aveva fatto altrove. Tu quando lo vedevi correvi alla rete, abbaiavi per un po’ ma poi ti allontanavi cosciente che con quel bestione lì non avresti potuto far niente. Ed ecco che avvenne per me e per tutta la famiglia il doloroso evento che cagionò tanto sconforto e tristezza in tutti noi ma in me particolarmente. Ricordo come fosse adesso. Era una notte di giugno, calda e afosa: gli ultimi giorni di scuola. Al mattino, all’albeggiare, sentii un furioso abbaiare da parte tua, Leo, poi niente. Udii un rumore in cucina; andai a vedere, era mio padre. «Vai a letto» mi disse «io vado a vedere giù cosa è successo; forse è entrata qualche faina nel pollaio.» Anche mia madre si era alzata. Aspettammo per un po’ che mio padre tornasse. Quando finalmente salì in cucina aveva la faccia seria, avvicinandosi a me mi rassicurò. «Stai tranquillo» mormorò, sforzandosi di sorridere, «era proprio una faina, non ha fatto danni; Leo l’ha fatta filare via.» Tornai a letto e mi addormentai. Venne a svegliarmi mio padre prima del solito. Si mise a sedere sul letto, mi mise una mano sul capo e pacatamente così mi parlò: «Giovanni, devo darti una notizia non buona, ma tu ormai sei un ometto e devi accettarla con coraggio e forza. Sai, questa notte non è stata una faina a far abbaiare Leo, ma quel cane lupo dei Bennati. Ha saltato la rete ed è entrato nell’aia; voleva fare danni. Leo coraggiosamente lo ha affrontato ma ha avuto la peggio!» Io ebbi un sobbalzo al cuore e gridai: « Leo è stato ucciso!» « No!» mi rispose mio padre «ma è stato ferito in maniera abbastanza grave, adesso è steso vicino al suo canile, gli ho messo una coperta addosso; vado subito a chiamare il veterinario. Tu stai tranquillo, ti accompagno poi io a scuola: vedrai che Leo se la caverà!» «No!» gridai ancora «voglio andare da Leo, voglio andare subito da lui!» Mio padre cercò di convincermi a desistere; ma io terminai di vestirmi in fretta e corsi subito da te, caro amico. Eri disteso per terra; appena mi vedesti scodinzolasti e rivolgesti i tuoi occhi verso di me con uno sguardo intenso e sofferente. «Leo, caro Leo» ti mormorai e strinsi forte il tuo capo al mio petto. Mi feci poi coraggio, alzai la coperta e guardai la ferita: un profondo squarcio lungo l’addome e il pelo tutto sanguinante; soffrivi sicuramente. Presi il tuo musetto tra le mani, ti diedi un bacio, poi scoppiai a piangere. Tu cominciasti a mugolare intensamente, quasi fosse un pianto anche il tuo. Appoggiasti il capo sulle mie braccia. Capii in quel momento che tu eri addolorato, ma non tanto per la tua ferita, ma perché vedevi piangere me e questo tu non lo volevi. Mi asciugai le lacrime, ti feci un sorriso, e vidi che anche tu ti rasserenasti. Io rimasi vicino a te, nonostante la mamma mi invitasse a fare colazione e a prepararmi per andare a scuola. Arrivò mio padre con il veterinario, sentii questi dire che bisognava suturare la ferita. Mio padre mi prese per mano come per condurmi via, ma io volli rimanere accanto a te fino che l’operazione non fosse terminata. Quel giorno non andai a scuola, volli rimanere vicini a te; ti avevano fatto l’anestesia e dormicchiasti quasi tutto il giorno. I giorni che passarono non furono buoni; avevi la febbre alta, gli occhi sempre semichiusi. Ed ecco improvvisamente una mattina la dura sentenza. Ero seduto nel mio piccolo studiolo, mio padre mi venne vicino e dopo avermi passato una mano sulla spalla mi disse: «Caro Giovanni, per Leo, sai, non c’è più nulla da fare, me lo ha comunicato poco fa il veterinario. So che la notizia che ti darò ti farà soffrire; ma la decisione che ho preso è per il bene del cane; fa molto male anche a me, sai, vederlo in quelle condizioni: quindi per non vederlo più soffrire ho deciso di abbatterlo.» «No!» gridai ancora una volta io, appoggiando la testa sulle mani. Dopo un po’ alzai il capo e dissi a mio padre: «Quando lo farai?» Mi rispose: «Stasera stessa, verso le 17: un colpo di fucile e Leo non soffrirà più.» Rimasi in silenzio, mio padre uscì dalla stanza. Poco prima delle 17 venni a darti l’ultimo saluto. Avevo in tasca un pasticcino di quelli che so che ti piacevano. Ti accarezzai, ti chiamai per nome. Tu, come svegliandoti, apristi gli occhi umidi, scodinzolasti come facevi sempre quando eri contento di vedermi; ti porsi il mio pasticcino, lo annusasti e scostasti il capo da una parte, non ti sentivi di mangiarlo. Io insistetti e tu per farmi piacere apristi la bocca e mangiasti contro voglia il mio piccolo dono. Ti porsi anche da bere e bevesti un sorso d’acqua. Ero triste e addolorato ma resistetti al pianto, mi sforzai di sorriderti. Ti diedi un forte abbraccio e ti lasciai! Un mugolio prolungato mi accompagnò; fu il tuo ultimo saluto. Alle 17 in punto un secco colpo di fucile e tu caro Leo non eri più, avevi finito di soffrire. Andai a sdraiarmi sul letto, la mamma mi venne vicino. «Giovanni» mi disse «se vuoi domani stesso andremo a cercare un altro cane, lo chiameremo Leo e sarà come se il nostro caro Leo vivesse ancora.» «No mamma» risposi «nessun cane potrà sostituire Leo; lui era come una persona di famiglia; ci siamo voluti troppo bene!» Un lungo silenzio, poi mia madre riprese: «Senti Giovanni, noi di famiglia siamo credenti, siamo cristiani e crediamo che dopo la morte la nostra anima sopravvivrà. Leo era un animale e sappiamo che gli animali non hanno anima; ma tutto il creato, tutti i viventi sono in mente e sempre presenti al Creatore; quindi nella mente di Colui che ci ha voluti in questa terra è stato presente e sarà sempre presente l’affetto tuo e di Leo, anche lui sua creatura. Leo non c’è più in questa terra, ma nella memoria del Creatore il suo atto eroico, il bene che ha fatto a te e a noi rimarrà sempre vivo! Questo deve consolarti e rasserenarti!» La mamma si avvicinò di più a me, mi prese le mani. «Su, Giovanni, alzati e vai a giocare nel prato come facevi sempre con Leo, pensalo vicino come quando lui era vivo. Il tuo amico sarebbe dispiaciuto della tua tristezza. Ricordi come abbaiava contento quando ridevi, correvi, e giocavi con lui!» Mi alzai dal letto e abbracciai la mamma. Le sue parole avevano rasserenato un po’ il mio animo, ero meno triste. Ormai avevo undici anni e i pensieri di mia madre erano penetrati nel profondo del mio cuore; anche se non avevo appreso appieno il significato e il senso profondo di quei ragionamenti rivoltimi in particolare per cercare di confortarmi e rasserenarmi. Sono passati tanti anni, ho studiato, mi sono laureato, mi sono formato una famiglia, ho un bell’impiego. Sono maturato intellettualmente, socialmente, spiritualmente. In fondo al mio animo però penso ancora, forse un po’ ingenuamente (ricordando le parole che un giorno mi disse la mamma), che quell’affetto durato anni tra un bambino e il suo cane non si sia sciolto come neve al sole, ma che Qualcuno l’abbia raccolto, l’abbia apprezzato, e si sia compiaciuto che due esseri da Lui creati, anche se tanto diversi tra loro, si siano voluti bene. Avevo iniziato questo primo pomeriggio solitario, in modo annoiato, sonnolento, e un po’ anche rammaricato per la brutta partita dell’Inter. Dopo questi ricordi giovanili che mi sono ritornati in mente, quasi casualmente, mi sento più contento e tranquillo: quasi una folata d’aria fresca fosse entrata nel salotto. Il tempo è volato via sereno. Delicati sentimenti, intensi affetti mai sopiti si sono risvegliati. Il cuore dell’uomo maturo che ritorna a rivivere con il pensiero i giorni della sua fanciullezza non è sempre puerilità; è ritornare alle proprie radici da cui uno è partito; alla fonte di gioie ed emozioni che non si possono dimenticare... Ormai si è fatta sera, mi alzo per andare ad accendere le luci della cucina. Fra poco arriveranno anche mia moglie e i miei figli. Mia moglie, come di solito, si metterà subito a sfaccendare per preparare la cena; il compito mio e dei miei figli è quello di preparare la tavola. Arrivato però in cucina torno indietro: voglio consultare nell’agenda i miei impegni di domani. Apro il cassetto dove tengo l’agenda, ma questa si è spostata all’interno. Allungo la mano per prenderla ed ecco la mia mano tocca una borsetta che si trova nel cassetto: è la borsetta delle mie fotografie. La prendo, la apro. Fra le tante fotografie ce n’è una che mi è cara; la cerco, la trovo, la guardo. È una fotografia scattata in bianco e nero. Qualche anno fa l’ho fatta ristampare e colorare. Ritrae me sorridente con la divisa da scolaretto: vestito nero, fiocco celeste. Sono accovacciato accanto a Leo, un braccio sul collo di lui. Guardo un momento la fotografia: sorrido. Dentro di me viene spontaneo un saluto, poi un pensiero: «Ciao! Ciao... Leo, amico mio. Questa sera ero solo come tante volte da bambino nella grande cucina di campagna; tu entravi senza far rumore, ti accovacciavi vicino a me e mi tenevi compagnia. Anche stasera sei entrato nei miei pensieri, sei ritornato nei miei sentimenti, mi hai fatto ancora una volta buona compagnia. Grazie Leo!”


 
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