| Fu un secondo anzi due 1962 La mia casa era immersa nei campi di grano della bassa padana. Mio padre e tutti gli zii la sera rientravano stanchi, io la nonna, la mamma e la zia Titta ci occupavamo delle faccende domestiche. Alcune donne della famiglia, decisero di andare a vivere in città. La cugina Elsa partì per Torino dove stava frequentando un corso per diventare modista. Aveva la fissa per i cappelli. Sua madre dopo varie discussioni per tenerla in fattoria, la mandò da un lontano parente che abitava in città, facendogli promettere che si sarebbe preso cura della ragazza. La cugina Zoraide, chiamata la rossa per via delle labbrone molto procaci, e sempre pittate di rosso fuoco, frequentava la scuola di ragioneria a Parma. Non veniva mai a casa se non nelle feste comandate. Viveva con sua madre in un locale senza servizi dietro il Battistero. Per raccontare di tutto il parentado non mi basterebbero due vite. Comunque, quel giorno, noi donne eravamo indaffarate ad addobbare sia la casa che le stalle. Il giorno dopo si festeggiava il patrono del paese. Se non ricordo male, è la seconda domenica di maggio. Vista la bella stagione, il giardino antistante l'entrata era tutto un bocciolo, ma non ci bastava. Volevamo rendere la fattoria più allegra e colorata. Allora io e mamma appendemmo delle coccarde, dei tulle color lilla e dei fiocchi tinta sabbia. Il mattino della festa, il nonno, prima di andare nei campi con il vecchio furgone Ford, lasciò detto a Pericle di non allontanarsi da casa per via del terribile temporale che stava devastando la zona. Purtroppo sarebbe proprio passato sopra le nostre teste. Pericle era il matto del paese. Noi gli davamo un tetto e un po' di calore famigliare, non aveva nessuno e tutti lo deridevano, giù in piazza, per i suoi modi un po' fuori dagli schemi. Lui correva sempre, poi si fermava, cercava ansiosamente qualche cosa nelle tasche, non trovando nulla, riprendeva a correre. Il cielo stava diventando sempre più scuro all'orizzonte, perpendicolarmente alla terra vedevo brillare i fulmini. La mamma urlò di scendere dalla scala e di andare in casa. Infatti una volta tutti al riparo, restammo in attesa che il temporale passasse. Ricordo che, sbirciando dalle fessure della persiana, un vento terribilmente violento faceva roteare tutta la sabbia mista a fieno creando degli enormi imbuti che risucchiavano qualsiasi cosa. La sua forza spalancò alcune finestre, facendoci sussultare e portando nella stanza sabbia, odore acre e polvere. Una valanga di polvere. Poco dopo, più nulla, il silenzio, il rombo assordante di poco prima non si sentiva più, tutto era statico, incollato a terra. Mamma si guardò attorno per cercare un uomo. Voleva uscire, e aveva bisogno di braccia muscolose per farsi tenere, una volta aperta la porta. L'unico era Pericle. Purtroppo il ragazzo giaceva seduto in un angolo, a terra, con le braccia rivolte al cielo e la testa che sbatteva a destra e a sinistra, la bocca era spalancata, ma da lì non emergeva alcun suono. Visto la carenza di maschi uscì sola. La nonna la esortò di non farlo, spiegando che, quella quiete era dovuta perché eravamo nell'occhio del vortice d'aria, ma da lì a poco si sarebbe ancora scatenato il finimondo. La mamma, cocciuta come sempre, non volle ascoltarla. Con molta cautela aprì la porta a doppio battente e mise fuori dapprima la testa poi tutto il corpo. L'ampia gonna di velluto verde, cadeva perfettamente a piombo sulla esile figura, e la camicia di un leggero cotone champagne non svolazzava. Si girò verso di noi, facendoci segno con il braccio che era tutto passato. In un secondo, non la vedemmo più. Io stavo per correre fuori, ma la zia prontamente mi afferrò scagliandomi a terra, poi chiuse la porta con molta fatica. La disperazione ci assalì, la mamma era bloccata là fuori, ma non potevamo mettere a repentaglio anche le nostre vite, non potevamo uscire, se l'avessimo fatto, sarebbe stato un disastro per tutti. Una volta cessato l'uragano ci riversammo sull'aia, ma della mia mamma nulla. Non solo noi subimmo delle perdite, anche nelle fattorie vicine persero dei famigliari, così dalla festa ne uscì un funerale generale, dove i superstiti non sapevano su chi piangere. Quasi tutti i corpi furono trovati, mesi dopo nei luoghi più svariati. La mamma la trovarono in fondo ad un vecchio pozzo. Solo allora fui certa della sua morte, fino a qual momento cera sempre la speranza che tornasse. Da quell'episodio sono passati moltissimi anni.
Il tempo cicatrizza tutto anche una scomparsa così violenta, avvenuta proprio sotto i miei occhi di dodicenne. Cambiai vita e città, la nonna e il nonno morirono nel letto della casa immersa nel grano. Pericle fu adottato dai preti del paese. Io Elsa e Zoraide aprimmo un negozietto in provincia di Torino. Vendevamo cappelli. Il negozio era in piazza proprio di fronte alla chiesa. Fortunatamente la nostra cittadina era in una zona molto turistica, quindi gli affari andavano bene. Una mattina, facendo colazione in pasticceria, la tv diede l'allarme per un potenziale nubifragio proprio nella nostra provincia. Naturalmente io mi preoccupai un po' e mi riaffiorò tutto il passato. Zoraide vide il mio viso pensieroso, capì al volo, e mi rassicurò dicendo che i meteorologi a volte esagerano e che lei abitava lì e non era mai accaduto nulla di così potente. Lo stesso pomeriggio il cielo si incupì e iniziò a piovere, le gocce sbattevano a terra fragorosamente, ognuna di loro sembrava pesasse un chilo. Elsa abbassò la saracinesca. Abitavamo sopra il negozio e salendo una scala di legno si raggiungeva il terrazzo. Lo curavo io, avevo creato un bersò dove la vite americana si era arrampicata, agli angoli c'erano due vasi di coccio che contenevano due turgidi oleandri. Due panche e un tavolo pitturati di color lavanda lo completavano, rendendolo proprio un angolo di paradiso. Il nostro. Ebbene, il vento iniziò a sibilare, l'acqua, dapprima timidamente, poi con prepotenza si impossessò del pavimento del negozio. Noi tre, disperate, stavamo salvando tutta la merce che era ordinatamente chiusa negli armadi. L'acqua arrivò velocemente alle ginocchia, non riuscivamo più a camminare. Oramai scalze ci aggiravamo in preda al panico. Così se ne andò anche la luce, creando maggior paura. Per salire nell'appartamento, c'erano circa una ventina di scalini. In quella giornata li percorremmo un migliaio di volte. Fuori da quella saracinesca sembrava ci fosse il finimondo, rumori cupi e violenti la facevano sbattere, creando frastuoni continui e assordanti. Fu un secondo. L'acqua la squarciò, come si taglia un pezzo di carta, la lamiera fece due labbra verso l'interno, e come un vortice inghiottì tutto, anche le mie cugine, che stavano raccogliendo gli ultimi modelli. Fu terribile. Le urla di Elsa e Zoraide non sarà facile dimenticarle. L'acqua le trangugiò e il vento completò la sua trama devastando tutto. Io dall'alto dei nostri venti scalini, lanciai loro delle corde che tenevamo avvolte alla ringhiera per appendere i cappelli, ma fu inutile. Quelle funi sprofondarono nell'acqua gelida. Disperata salii al primo piano e alzai la tapparella. Aprii la portafinestra a fatica e vidi l'acqua conquistare anche il balcone. Un fiume marrone e melmoso aveva invaso la graziosa piazza, portando con se auto e detriti di ogni genere,il vento completò la trama sradicando le piante dei giardini, mi sporsi per vedere meglio. Vidi meglio la desolazione, la paura mi assalì. Imprecai, fradicia sul balcone, mi misi in ginocchio maledicendo il mio destino. Così presi la decisione di tuffarmi con loro. Non avrei potuto sopportare anche questo tragico ricordo. Salii in piedi sul parapetto dal balconcino spostai piano i piedi fino a cadere anch'io giù. Ma l'istinto di sopravvivenza è insito in noi e cominciai a dimenarmi, intanto sballottavo a desta e a sinistra. Mi venne in soccorso una fune arrivata dal nulla. La afferrai e non la mollai più. Sentivo che dall'altro capo qualcuno mi stava salvando, qualcuno mi stava trascinando verso una nuova vita. Io non ero riuscita nell'intento di salvare le mie cugine, questa persona lo stava facendo con me. Stremata mi adagiarono sul pavimento di un terrazzo molto alto. Mi staccarono le mani dalla fune a forza, non volevo mollarla. Riprendendomi mi accorsi che il mio salvatore, era una persona che frequentavo tutti i giorni. Il pasticcere, proprio lui, Luigi il pasticcere, bello, alto, baffuto con quegli occhi color notte.
Oggi di quelle brutte esperienze non ne parlo con nessuno. Tutti, qui a Lavagna ,dove ora viviamo, pensano che abbia avuto una vita normale, pensano che sia stata fortunata per aver incontrato Luigi che passeggia accanto a me. Grazie a lui ho seppellito la vecchia Annabella e fatto rinascere Annalisa. Una nuova persona, con tanto amore e tanta pazienza lui mi ha fatto uscire da un periodo di torpore e malinconia. Mi ha fatto comprendere che la vita è un dono, e bisogna viverla come essa arriva, con dispiaceri e gioie con delusioni e felicità.
" Hai finito di scrivere Annalisa? Ci aspettano i tuoi nipoti in gelateria?" " Sì Luigi ho finito. Arrivo."
Edited by solenebbia - 29/6/2012, 00:27
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