Abaluth - Scrivere, leggere, arte e cultura

Dimenticare il futuro

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view post Posted on 20/5/2012, 13:44
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Fabrizia

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Dimenticare il futuro
Mirko Giacchetti


Circa dieci anni prima avevo conosciuto un tizio, non mi ricordo se si chiamasse Mauro o Carlo, che aveva l’abitudine di mettere quattro cucchiaini di zucchero nel caffè. Per giustificarsi, usava dire sempre: «Che almeno il caffè sia dolce.»
Non so che fine abbia fatto, né se sia riuscito ad addolcire la sua vita.
Questo ricordo mi accompagnava mentre percorrevo via Roma. Ero uscito di casa per imbucare alcune lettere. Mi ero trasferito da poco a Palermo e non avevo ancora internet a casa, quindi dovevo confidare nel recapito delle poste.
Forse il tizio, quello dei cucchiaini, faceva il postino. Mi sembra di ricordarlo con una divisa blu, camicia a righe, ma poteva anche essere un usciere del comune.
Un giorno cercherò di ricordare meglio.
Avevo scelto Palermo perché volevo dimenticare il futuro; lavoravo come tecnico informatico presso una banca. Un giorno mi comunicarono che ero “un esubero”. Mi spiegarono che la recente fusione con un altro grande gruppo portava il dimezzamento di alcuni impiegati del mio settore. Essendo io prossimo alla pensione, ero un perfetto candidato per il ridimensionamento. Non ascoltai bene la loro spiegazione, ma accettai la loro proposta e uscii dalla azienda. Pochi giorni dopo valutai la mia vita. Vivevo da solo; gli amici, o qualcosa del genere, erano tutti colleghi di lavoro. Non avevo nulla che mi trattenesse, così decisi di trasferirmi.
Se fossi rimasto, mi aspettava un futuro triste; così lo dimenticai, cercandone uno nuovo altrove.
Perché Palermo? Devo ancora scoprirlo.
Avevo scritto tre lettere da spedire come raccomandate per comunicare il cambio di residenza; la prima all’Associazione Nazionale degli Alpini, un’altra all’Associazione Culturale Scrittori e l’ultima alla rivista Modern Poetry a cui ero abbonato.
L’unico hobby che ho mai avuto è la scrittura. Sono un eterno principiante che parla di sé. Niente di valore, solo parole messe in fila, per resistere nel tempo e io con loro. Almeno lo spero.
Sul marciapiede una coppia di ragazzi procedeva in senso inverso al mio; per proseguire oltre nel cammino, dovetti scavalcare un grosso cane di una razza indefinita. Aveva il pelo raso nero. Sul muso si intravedevano alcuni peli bianchi. Non doveva essere tanto giovane. Respirava piano e con brevi scatti muoveva le zampe. Era così magro che gli si potevano contare le costole. Dormiva incurante dei passanti. Non si accorse nemmeno del mio passaggio.
Mi fermai a guardarlo.
«Dormi bene?» dissi, rivolto all’animale.
Aprì gli occhi e mosse appena la coda. Con un leggero brontolio cambiò posizione e sbuffò appena fu pancia all’aria.
«Tu sì che vai bene» dissi al cane e proseguii il cammino.
Percorsi un centinaio di metri e riconobbi la posta centrale. Era un tremendo avanzo dell’epoca fascista. Colonne altissime, imponenti, massicce. Una costruzione eccessiva, opulenta. Una enorme gradinata la alzava dal piano stradale. Incubi architettonici e deliri di una grandezza naufragata.
Attraversai la strada per raggiungere la posta. Arrivai davanti a una panetteria. Sentii il profumo di pomodoro e cipolla. Anche se mancavano ancora due ore al pranzo, quell’odore mi stimolò l’appetito. Decisi di entrare.
Era un negozio piccolo, un bancone tagliava in due lo spazio. Il caldo aveva un buon profumo. Sulla parete diversi cesti con il pane al sesamo, alle olive, alle noci. Nel bancone in un piccolo spazio illuminato c’erano meringhe, cannoli e qualche vaschetta di gelato e granita. A fianco dei piccoli biscotti al sesamo e degli arancini grossi quanto una mela. Da una porta comparve il panettiere con una teglia.
La appoggiò sul bancone, si tolse i guanti.
«Buongiorno» disse.
«Buongiorno, vorrei un po’ di quella pizza» dissi indicando la teglia.
Il panettiere sorrise, mi guardò e chiese: «Di dov’è lei?»
Cercai di immaginare cosa potesse far capire che non ero siciliano. Certo non avevo l’accento, ma era così evidente?
«Torino.»
«In Piemonte, vero?»
Annuii.
«Questo è lo sfincione, altro che pizza.» Il panettiere incrociò le braccia mentre annuiva con la testa.
«Allora assaggiamolo» dissi.
Il panettiere me ne tagliò una fetta abbondante. Lo incartò, ma lo lasciò sul bancone.
«Le conviene aspettare, che è troppo caldo. Come mai a Palermo?» mi domandò, spostandosi verso la cassa.
«Mi piaceva, quindi ho pensato di venirci ad abitare» risposi, alzando le spalle.
Pagai e uscii. Misi le lettere nella tasca dei pantaloni e assaggiai lo sfincione. Si era raffreddato. Il panettiere aveva ragione. Altro che pizza! Il pomodoro, la cipolla e uno strato sottile di una pasta simile alla focaccia.
Quando finii di mangiare, sentivo ancora il sapore. Una vera bontà. Ripresi il cammino verso la posta. Appena salii il primo gradino, mi domandai: “Il cane ha mangiato?”
Mi fermai. Per quanto era magro, non doveva mangiare troppo spesso. Salii i gradini e guardai dentro all’ufficio. Ovunque c’era gente che aspettava il suo turno; sulle sedie ai lati, in piedi, alcuni erano fuori a fumare. Ognuno aveva il bigliettino bianco per l’attesa.
Le mie lettere potevano aspettare, continuavo a pensare al cane. Scesi i gradini, tornai alla panetteria. Entrai e trovai una signora anziana che comprava del pane. Appena mi vide, il panettiere mi fece un cenno e disse qualcosa alla signora. L’anziana si voltò e mi disse: « È buono lo sfincione, ah?»
Sorrisi. L’anziana disse ancora qualche altra parola, ma non capii nulla. Parlava in dialetto, troppo stretto perché potessi capirla. Salutò il panettiere e uscì.
«Ne vuole ancora un po’?» chiese il panettiere, stringendo il coltello.
«Sì, ma una porzione più grossa di quella di prima» risposi.
«Le è piaciuto così tanto?»
«Sì, ne vorrei una porzione da portare a un amico.»
Pagai e uscii. Ritornai indietro, attraversai la strada e scoprii che il cane non c’era più. Doveva essersene andato.
La cosa mi dispiacque. Feci qualche passo e appena superai il bidone dell’immondizia, lo vidi. Annusava il cassonetto.
«Hai fame, vero?» Mi scodinzolò, ma senza troppa convinzione. Alzò la testa e puntò il naso verso di me.
Scartai lo sfincione e glielo porsi. Due bocconi e il suo pranzo era finito.
Ora mi scodinzolava più convinto. Forse piaceva anche a lui.
Lo accarezzai, notai che aveva bisogno di un bagno. Chiuse gli occhi e avvicinò il muso alla mia gamba. Si appoggiò e mi spinse un po’ indietro.
«Non ne ho più» dissi, accarezzandolo ancora una volta.
Mi avviai verso la posta, rassegnato a fare la coda. Dopo pochi passi, il cane mi affiancò. Mi camminava vicino, senza perdermi di vista. Sorrisi, mi fermai.
«Non puoi venire con me. Domani passo e ti porto qualcos’altro, ok. Ora torna a casa.»
Ripresi a camminare. Inutile dire che rimase con me per tutto il tragitto sino alla posta.
Il cane salì i gradini e appena arrivai alla porta si fermò e si sedette. Aveva capito da solo che non poteva entrare.
Sul biglietto c’era scritto che avevo trentasei persone davanti. Mi rassegnai e cercai un posto in cui attendere. Dalla vetrina guardai il cane. Era seduto e fissava la porta. Pensai che presto si sarebbe stufato.
Dopo un’ora di attesa, riuscii a spedire le tre lettere. Per tutto il tempo il cane mi aspettò.
Appena uscii dall’ufficio, mi scodinzolò e appoggiò ancora una volta la testa sulla mia gamba.
«Sì, sono tornato» dissi, accarezzandolo.
«Andiamo.» Scesi i gradini con il cane al mio fianco.
Tornai dove lo avevo incontrato. Mi guardai attorno per capire da dove provenisse. Il cane si accucciò a terra e mi guardava. Poco distante c’era un bar, decisi di entrare e chiedere di chi fosse.
Il barista mi disse che il cane era randagio, come tanti a Palermo. Non era di nessuno, viveva lì e basta.
Uscii e mi avvicinai al cane. Si alzò e mi guardò.
«Adesso cosa faccio? Mica ti posso lasciare qua? Poi sarai stufo di mangiare spazzatura, vero?»
Mosse la coda e si strisciò. Capii che avevo appena stretto la mia prima amicizia in città.
Percorremmo tutta via Roma, guardandoci per tutto il tempo. Non appena gli sorridevo, lui scodinzolava.
Lo guardai meglio, era un maschio. Nell’orecchio destro gli mancava un piccolo lembo di carne.
Chissà quante ne aveva passate.
Arrivammo a casa. Abitavo al terzo piano di una palazzina vicino alla stazione. Ormai avevo deciso di tenerlo con me. Non potevo abbandonarlo alla sua vita.
C’era solo un problema: nel palazzo accettavano i cani?
Entrai nell’atrio e mi fermai alla portineria.
Il custode alzò la testa dal libro e mi rivolse un saluto.
«Buongiorno. Sono ammessi i cani nel palazzo?» chiesi, indicando il cane.
«Sì, non c’è problema. È suo?» domandò il portinaio, guardandomi.
Annuii e accarezzai il cane.
«Come si chiama?»
«Quattro cucchiaini» risposi, senza nemmeno pensarci.
«Quattro cucchiaini di cosa?»
«Di zucchero. È la dose giusta per addolcire il caffè.»
Era iniziato il mio nuovo futuro. La solitudine era meno rumorosa in compagnia di Quattro cucchiaini.


 
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William Munny
view post Posted on 21/5/2012, 23:31




Ciao Abaluth,
niente da ridire alle correzioni. Ottimo lavoro e grazie ancora di tutto.
Presto cercherò di partecipare anche all'altro concorso.
Mirko.
 
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view post Posted on 22/5/2012, 17:08
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Fabrizia

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Grazie Mirko.
A presto :)


 
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2 replies since 20/5/2012, 13:44   24 views
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