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Il cane, lei, il tutto

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view post Posted on 18/5/2012, 21:43
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Fabrizia

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Il cane, lei, il tutto
Margherita Mariani


Di cani, la vecchina ne vedeva molti e tutti i giorni. C’erano cani grandi, piccoli, giallini, bianchi, c’erano cani che correvano dietro alle biciclette e cani vecchi che arrancavano. Insomma, cani.
Mai si era interessata ad alcuno di questi; lei e loro non avevano assolutamente nulla in comune, con l’eccezione forse dei ciuffi di peli nelle orecchie. Lei, anzi, questi cani li vedeva lontani, vagamente evanescenti, esattamente come vedeva le persone. Ma non cerchiamo subito di accusare le cataratte, per questo: la vecchina infatti ci vedeva benissimo, potremmo dire anzi che fosse una vera aquila. Era questa, secondo lei, la sua più grande fortuna.
No, la distanza che lei immaginava fra sé e tutti gli altri che vivevano era una distanza spirituale. Da anni ormai la vecchina non era più parte del mondo. Da anni ormai sedeva sulla sua sedia a dondolo scricchiolante, sul suo portico di legno. Da mesi, invece, aveva infine smesso di compiere lo sforzo necessario a far scricchiolare e dondolare lievemente la sedia. Le azioni e passioni di chi viveva non la riguardavano più.
Sì, erano anni, ormai, che la vecchina solamente guardava. Guardava e guardava oltre il suo cortile e il suo steccato, fino a laggiù in piazza, guardava, fino alle montagne lontane, guardava. Guardava con freddo interesse scientifico o guardava con abbandono. Eppure nessuno guardava lei.
Per ricollegarci all’inizio del nostro racconto, neppure i cani.
Poi accadde un giorno che un cane strisciasse sotto al suo steccato ed entrasse nel suo giardino. Così, ovviamente, la vecchina lo guardò. Ma il cane non guardava la vecchina. La lingua penzoloni, la coda che si agitava distrattamente, si sedette accanto a lei.
Ci fu una pausa di silenzio. Poi:
«Ehm?» gracchiò la vecchina.
In uno svolazzare di orecchie, il cane voltò la testa verso di lei e la sua sedia.
«Wuff.»

Ciò diede abbastanza da pensare alla vecchina, che non volle porre altre domande. Lei ed il cane sedettero a lungo; poi all’imbrunire il cane si alzò, strisciò sotto lo steccato e sparì.

Il giorno dopo la vecchina non fu sorpresa nel vedere il grosso naso umido del cane apparire un’altra volta da sotto lo steccato. Quello che la stupì, invece, fu vedere che a seguire il naso c’era una pallina da tennis.
Si accorse così che fino ad allora aveva dimenticato come fosse fatta una pallina da tennis.
Come il giorno prima il cane zampettò verso di lei, poi balzellando salì sul portico e con uno spiacevole suono appiccicaticcio fece cadere la pallina sul suo grembo.
La vecchina guardò la pallina rotolare un attimo sulla sua gonna fino a trovare una posizione comoda ed accomodarsi lì. In quel momento per lei la pallina fu più viva di ogni altro essere che negli ultimi dieci anni fosse mai passato di fronte al suo steccato.
Sapeva che c’era una sola cosa che la pallina voleva: essere lanciata. E per una strana coincidenza, questo collimava anche con la volontà del cane.
Da quanto tempo le sue mani raggrinzite non avevano più stretto nulla? Convinta di vederle rompersi, la vecchina chiuse le dita scricchiolanti sulla pallina da tennis. Sicura di sentirlo ricadere, la vecchina sollevò un braccio. Persuasa di fallire, la vecchina slanciò il braccio in avanti ed aprì le dita. La pallina volò. Il cane corse.
Era così semplice, dunque.

Quella notte la vecchina non dormì. Grandi cose si agitavano nella sua testa. Tra l’altro, pensava al cane. Era vagamente conscia del fatto che il cane avrebbe meritato un nome; ma dovete sapere che la vecchina non aveva mai avuto molta fantasia. Non desiderando sforzarsi, lasciò che il nome del cane restasse “il cane”.

Il terzo giorno il cane tornò. Sedutosi al solito posto, annusava intento la scatola di biscotti sullo sgabello accanto al dondolo.
«Vuoi un biscotto?», parlò la vecchina. Nemmeno si stupì più tanto di aver parlato e invece, ansiosa di ripetere il leggero e magico movimento delle dita riscoperto il giorno prima, aprì la scatola e diede al cane un biscotto alle mandorle. Per sé ne prese uno al cioccolato.
Lo morse. Rese sua una parte di mondo. Lo spazio occupato dal biscotto divenne suo; concepì, come mai nessuno poté sentire con tale chiarezza, che quell’azione era una riappropriazione di spazio. Il gesto di mangiare null’altro era, per lei, se non un urlare: «Sono qui! Io e il mondo ci compenetriamo; l’universo riconosce la mia presenza.»
Non so dire purtroppo che cosa ne pensasse il cane. Fatto sta che, dopo essere rimasto seduto un altro po’, se ne andò soddisfatto e pieno di briciole di mandorla.

Il quarto giorno la vecchina sorrise nel veder apparire il nasone ormai familiare, seguito da quell’ammasso di pelo che era il suo cane.
Sentendo il sorriso allargarsi sulla faccia, la vecchina si chiese se non fosse il biscotto a sorridere tramite le sue labbra raggrinzite. Era il biscotto che era parte del mondo, il biscotto che al mondo aveva ancora qualcosa da comunicare, non lei. O forse no?
Diede un biscotto al cane. Lei ne mangiò tre. Ne diede due al cane e ne mangiò quattro.
Rise.
«Wuff!» disse il cane, e la vecchina rise di più, rise sentendo quella musica nelle orecchie; poi, come se quei suoni prepotenti le avessero tolto due grossi tappi dalle orecchie, sentì il vento cantare con lei. Sentì gli archi dei grilli, e il coro degli uccelli. Guardare non era più il suo unico contatto col mondo: ora il mondo fluiva ininterrottamente attraverso di lei, alcuni pezzettini di esso le restavano intrappolati dentro ed altri fuggivano subito, ma tutti erano ugualmente forti e lucenti. Decise di chiudere gli occhi ed ascoltare, per una volta.
E per tutta la notte il vento le sussurrò dolci canzoni.

Il quinto giorno il cane aveva un filo d’erba impigliato su un orecchio. Senza pensarci la vecchina lo tolse; ma nel far ciò, la sue dita fredde sfiorarono il pelo caldo del cane. Come era accaduto il primo giorno, lei ed il cane sedettero a lungo senza far nulla. Poi finalmente la vecchina poggiò la mano sulla testa dell’amico.
Il cane scodinzolò e la vecchina seppe che anche lei, se avesse potuto, lo avrebbe fatto. Ora, finalmente, tutto ciò che fino ad allora le era sfuggito sembrò fluire rapido sulla sua pelle insieme al calore del cane. Di fronte a lei non c’era solo lui, c’erano anche fiori e volpi e alberi e montagne, c’era tutto ciò da cui lei si era sentita tanto estranea e che invece solo ora iniziava a comprendere realmente. Tutto questo era il cane, ma tutto questo era anche lei.
Sentì allora la necessità di dare un nome al cane, per distinguerlo da tutto il resto del quale faceva totalmente parte e dal quale era tuttavia completamente diverso.
«Rupert» disse; poi rise; poi lei e Rupert mangiarono un biscotto.

Il giorno dopo Rupert non tornò. Non so dire se forse il suo nuovo nome non gli fosse piaciuto, oppure se semplicemente avesse deciso di cambiare la propria vita. Inoltre non so se anche lui sentisse tutto quello che aveva risvegliato nella vecchina; non so se fosse conscio di ciò che aveva fatto e nemmeno so se i sentimenti della vecchina fossero personalissime sensazioni o se avessero valore di verità.
Quello che so è che un semplice cane è in realtà tutt’altro che semplice; che un cane racchiude, come ogni essere vivente, sogni e realtà inimmaginabili; che un cane è come un libro; e che Rupert era stato letto.

Sorridendo, la vecchina si alzò.


 
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