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Rinascita - Margherita Mariani

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francesca vernazza
view post Posted on 23/4/2015, 20:18




ciao il tuo racconto mi è molto piaciuto. :D
Devo dire che ho gradito moltissimo il finale che lascia la libertà al lettore di interpretarlo come vuole. :)
Oltretutto secondo me il racconto è scritto molto bene, e l'ho trovato anche scorrevole. :)
Complimenti!!!!! in bocca al lupo!!!!! :D
 
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view post Posted on 19/5/2015, 16:57
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Fabrizia

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Una profezia, scribacchiata e firmata dalla mano di Volzar il Grande in fondo a un’antichissima copia del poema dinastico dei Raxonaes:

In memoria di Raxon e della sua luce
(Che bruci e rinasca all’antica gloria),
Re dei cieli che illumina e ci conduce
Dall’alba dei tempi scrivendo la Storia:

Ci sia sempre un saggio a ricordare
Che per rinnovare il fulgido raggio
Nel cuore di Raxon si deve bagnare
Il discendente che n’abbia il coraggio.

Ché quando tutto appare perduto
Caduto in un cupo, cinereo lutto
Il figlio di Raxon, fanciullo o canuto,
Entrando nel fuoco ne sarà protetto.


«Maledizione, Deannogh, volete smetterla di fare quella faccia? Solleverete dei sospetti!» sibilò il principe Fenis al suo fidato consigliere, Deannogh il mago.
«Questa è la mia faccia, Vostra Altezza» balbettò Deannogh, che a dire il vero esibiva un’aria quantomeno colpevole, con la lunga barba azzurrina sgradevolmente impregnata di sudore. «Non mi è possibile farla o non farla.»
«Mago, vi garantisco che se dieci giorni fa quella fosse stata la vostra faccia avrei portato Clelia, piuttosto che voi» bofonchiò Fenis, nascondendo il suo malumore nel calice di vino proprio mentre il capo del villaggio tornava alla sua gioviale carica, ruggendo in modo alquanto informale: «Altis, Vostra Fevezza! Volevo dire, Fenis, Vostra Altezza!»
Il capo era una donna. Bassa e tozza, aveva già dato prova di poter bere il suo considerevole peso in vino senza accusare eccessivamente il colpo. «Spero che quello non sia ancora lo stesso bicchierino con cui vi avevo lasciato, quanto? mezz’ora fa?»
«Cinque minuti fa, Madama; e sì, è lo stesso.» Fenis sfoderò i suoi trentasei candidissimi denti in un sorriso affascinante mentre portava a sé il calice per rendere chiaro che non voleva assolutamente altro vino.
«Quanta formalità, Altezza! Se davvero siete ammalato di polmonite un goccio di vino non potrà farvi che bene» esclamò il capo del villaggio, prendendo un’enorme caraffa e annaffiando generosamente il calice e la manica di Fenis. Si sedette al tavolo dei due illustri ospiti, imitata subito dall’inseparabile seguito di brutti ceffi starnazzanti dalla faccia rincagnata. Il principe assunse suo malgrado l’espressione sofferente di chi cerca di ammantarsi di tutta la propria dignità solo per accorgersi di averla dovuta lasciare fuori dalla porta.
I villici sembrarono non farci caso. Il capo si grattò pensosamente i baffi neri, che erano l’invidia di tutti gli uomini presenti. «Ma dite, Altezza, dite: io e i ragazzi non siamo certi di aver afferrato questa cosa della profezia e della guarigione miracolosa. Cioè, né Valhen né il vecchio Ged mi avevano detto che il Fuoco di Raxon ha anche questo potere.»
Il mago sudaticcio fece per parlare, incalzato da uno sguardo del suo principe. «Be’, vedete, mia cara signora…»
«Ah, ma ecco il ragazzo!» berciò improvvisamente un omaccione con la faccia dipinta. «Valhen, vieni un po’ qui!»
Valhen era, come Fenis e Deannogh avevano imparato quella mattina al loro arrivo al villaggio, il sacerdote del Sacro Fuoco. Era un ragazzo allampanato dall’aria perennemente terrorizzata, il cui maestro e predecessore era morto di vecchiaia solo pochi mesi prima. Ora veniva verso di loro facendosi largo nella taverna tra ubriachi barcollanti e lampadari penzolanti ad altezza cranio.
Deannogh emise una specie di miagolio di terrore: non avevano raccontato proprio tutto riguardo la loro visita a quello sperduto villaggio tra le montagne. Si può dire che la conservazione del Fuoco Sacro al termine delle operazioni non fosse certo la loro priorità. Non voleva nemmeno immaginare il fremito furibondo dei baffi del capo se il sacerdote avesse intuito la verità ed espresso i propri dubbi.
«Valh, dicci cosa ne pensi: lo sapevi che il Fuoco può guarire i principi Raxonaes?» biascicò il capo, spingendo il proprio boccale di vino tra le mani del sacerdote.
Questi volse sui due ospiti uno sguardo tra lo spaventato e il dubbioso. «Ve l’ho detto, mia signora: non avevo mai sentito che il Fuoco di Raxon avesse simili proprietà. Voglio dire, al Fuoco si può chiedere, ovviamente, ma assorbirne parte delle facoltà per contatto? Mi sembra come minimo pericoloso.» Ma qui scorse lo sguardo infastidito del principe e tacque improvvisamente, paralizzato dal timore di aver osato troppo. «M-ma ovviamente questa non è strettamente parlando la branca di cui mi occupo, Vostra Altezza…»
«No, è evidente che non lo è, sacerdote» sbuffò Fenis, esibendo un sorriso amabile. Sbuffare e sorridere amabilmente al contempo erano due cose apparentemente inconciliabili che solo lui riusciva a riunire in un solo, fluido gesto. «Ma i nostri maghi di corte si occupano da secoli di occulto e in particolare delle patologie che sembrano essere ricorrenti, anche se spesso saltando lunghe generazioni, nella mia nobile famiglia. Inoltre, studiando gli antichi tomi sono state recentemente ritrovate delle profezie cui riteniamo di poter prestare fede. Fidatevi anche voi, se mastro Deannogh e i suoi adepti hanno individuato proprio nel vostro Fuoco l’onorata fonte della mia guarigione, non c’è alcun dubbio che abbiano ragione. Deannogh?»
«Ma certo, Vostra Eccellenza Eccellente, ma certo!» rincarò la dose il mago, saltando su come un pupazzo a molla. «La vostra eccelsa famiglia porta sulle spalle la responsabilità di un intero regno. È più che naturale che ogni tanto il peso si faccia sentire, soprattutto quando il regno è in difficoltà; e ancora più naturale che un principe si rivolga, in tale occasione, ai suoi fedeli sudditi per ottenere l’aiuto che gli spetta di diritto. Voglio dire, quando si ammala di, ehm. Polmonite.» Aveva parlato con tale rapidità che non tutti erano stati in grado di seguirlo: il capo e la maggior parte dei suoi seguaci avevano gli occhi vacui. O per meglio dire, più vacui di prima.
Ma Valhen aveva ancora dei dubbi cui dare voce, nonostante fosse chiaro che parlare in pubblico gli stesse costando un’indicibile sofferenza. Effettivamente, tra lui e Deannogh era difficile dire chi avesse la fronte più appiccicaticcia.
«Ma il Fuoco? Con tutto il rispetto, Vostra Altezza e Spettabile Maestro, i fuochi non sono tra le forze donateci dagli dei quelle adatte a curare, che io sappia, nonostante Raxon sia il Padre di tutti gli altri. Voglio dire, se si ha male agli occhi o problemi interni si beve l’Acqua delle fonti sacre a Gaun; se dolgono i piedi o cadono i capelli ci si cosparge della Terra delle radure della dea Halia; se si hanno problemi di digestione o di alito cattivo ci si espone al Vento sui promontori consacrati a…»
«Lo so!» ruggì improvvisamente Fenis, scattando in piedi e battendo il pugno sul tavolo. Valhen di contro si fece piccolo piccolo. «Ti intendi forse di re, regine e principi, ragazzo? Credi che abbiano gli stessi problemi degli altri esseri umani? Pensi che abbia percorso chilometri con la sola compagnia di un barboso mago barbuto perché sono vessato da mal di piedi e dall’insano desiderio di rotolarmi nella maledettissima terra delle radure della dea Halia?!» Valhen svenne, probabilmente toccato fin nel profondo del suo animo sensibile dall’allusione alla “maledettissima” Terra di Halia.
La maggior parte dei villici presenti (un discreto gruppetto si era unito agli astanti originari per ascoltare) invece scoppiò a ridere. Due sollevarono il sacerdote privo di sensi e lo adagiarono con inaspettata delicatezza su un tavolo. Fenis si rimise lentamente a sedere.
«Ben detto, principe!» esclamò il capo del villaggio, i baffetti frementi d’approvazione. «Si vede che voi siete fatto di un’altra pasta rispetto a noialtri. Se c’è qualcuno capace di difendere i nostri confini dalle orde di stramaledettissimi selvaggi, be’ quello siete voi! E vi vogliamo forte e in salute.» E sottolineò l’affermazione con un rutto. «Per il Fuoco di Raxon, la vostra visita ci onora e noi non vi impediremmo mai di toccare le fiamme sacre e nemmeno di buttarvici in mezzo, se lo desiderate.» Ci furono generali grida d’approvazione.
«Cara, cara signora» intervenne frenetico Deannogh, «vi assicuro che non sarà necessario spingersi a tanto. Basterà un tocco leggero e Raxon curerà i nobili polmoni di Nostra Magnificenza da ogni male.»
Forse si aspettava che Fenis accorresse in suo aiuto con ulteriori rassicurazioni da offrire ai villici, ma in quel momento il principe si alzò in piedi di scatto. Gli occhi di tutti si puntarono su di lui e lo seguirono mentre usciva a grandi passi dalla locanda.

Aprì violentemente la porta di legno e corse lontano dalla luce, nell’oscurità. Ma già dopo pochi metri le ultime forze lo abbandonarono e cadde in ginocchio nella neve gelida. Rimase semplicemente lì, ansante, a fissarsi le mani che tremavano incontrollabilmente sotto i guanti di pelliccia. Sentiva di non farcela più: un intero regno dipendeva da lui, e Fenis ne poteva letteralmente sentire il peso. La sua famiglia era stata sottoposta a questa pressione da migliaia e migliaia di anni, legata a doppia mandata all’impero da lei creato, e ora che i barbari avevano sfondato il confine travolgendo tutti gli eserciti era semplicemente troppo. Qualcosa di simile era successo alla sua prozia cent’anni prima, ricordò Fenis con un brivido. I nemici erano arrivati fin quasi al cuore del regno e la malattia dinastica l’aveva colpita: quand’era piccolo, le visite festive più spiacevoli erano quelle al sacello contenente le ceneri che erano state la sua antenata. Un altro violento tremito lo mandò faccia in avanti nella neve.
Perse i sensi e sopraggiunse il vuoto totale: ritornò in sé solo dopo qualche minuto (ma poteva benissimo essere stata qualche ora), quando sentì che qualcuno gli poggiava il suo mantello caldo sulle spalle.
«Vostra Incomparabile Altitudine» mormorò la voce rasposa di Deannogh. «Venite, torniamo a casa. Volevo dire, alla baita. Domani è il grande giorno, da domani non dovrete mai più patire tutto questo.»
Fenis annuì confusamente e si appoggiò al mago per rialzarsi in piedi, docile come non sarebbe mai stato in circostanze normali. Un guanto gli era caduto ed era rimasto lì, scuro sulla neve pallida: un osservatore attento avrebbe visto, mentre i due se ne andavano, che la mano e il braccio del principe erano grigi come la cenere e parevano tutto tranne che vivi. Certamente non si trattava di polmonite.

La mattina dopo il sole splendeva e la neve si scioglieva lentamente in rigagnoli d’acqua. Il principe passò il giorno a letto sotto strati e strati di coperte e si alzò solo poco prima di mezzogiorno; era questa l’ora giusta, gli aveva detto Deannogh, la più luminosa. Per evitare problemi di salute, aveva aggiunto.
Fenis proprio non poteva immaginare in quali altri problemi di salute sarebbe potuto incappare; non poteva immaginare nulla di peggio del perdere lentamente la sensibilità e dell’osservare ogni giorno il proprio corpo mutarsi in cenere, in concomitanza col fatto che il proprio regno veniva rosicchiato da ogni lato. Pur non facendo i salti di gioia all’idea di camminare nel Fuoco era disposto a fare quel che doveva, perché ormai non aveva alternative. Provava, in qualche punto ben nascosto e indefinito della propria anima, un certo dispiacere per gli abitanti del villaggio: senza il Fuoco sacro le nevi li avrebbero probabilmente inghiottiti. Ma se lui non avesse seguito la profezia, ritrovando la forza per sé e per il regno, a inghiottirli sarebbero stati i guerrieri barbari.
All’ora convenuta, dunque, si alzò e indossò le sue vesti più belle e regali, d’un rosso rubino e intessute con fili dorati. Le sue dita, nascoste nei guanti di riserva, tremavano leggermente mentre allacciava i bottoni del farsetto. Quando uscì dalla baita Deannogh era lì ad aspettarlo e così ogni singolo abitante del villaggio, i bambini in braccio alle madri, addirittura un cane con la lingua pendula seminascosto tra le gambe del padrone.
«Vostra Meravigliosa Munificenza» lo salutò rispettosamente il mago di corte.
Fenis rispose con un cenno della testa e senza una parola s’incamminò verso la grotta nella montagna dove ardeva il Fuoco di Raxon. Raxon, il dio. Raxon, l’antenato. Raxon, che sperava proprio stesse ascoltando le sue preghiere in quel momento.
«Se quella profetica filastrocca si rivela essere un mucchio di sciocchezze e finisco arso vivo, mago, giuro che tornerò dall’oltretomba solo per portarvi con me» sibilò a bassa voce a Deannogh, che gli camminava accanto, strappandogli un pigolio soffocato. Non diceva sul serio, ovviamente. Solo gli risultava alquanto sgradevole essere l’unico in quel momento ad avere le viscere attorcigliate dal terrore.
La grotta naturale intaccava la parete rocciosa proprio ai margini del villaggio. Dal suo interno proveniva una luce calda, caldissima, che si agitava e danzava mandando mille riflessi come un incendio.
«Il principe deve entrare da solo!» declamò Deannogh alla folla che li aveva seguiti a una rispettosa distanza. «Attenderemo qui il suo ritorno.» Per una volta la sua voce aveva un tono risoluto, e Fenis gliene fu grato: pensava che se avesse provato a parlare ora avrebbe quantomeno gracidato.
Senza osare guardare in faccia gli abitanti del villaggio per paura di leggervi una qualche accusa si volse ed entrò nella cavità rocciosa. Subito una vampata di intenso calore lo investì, togliendogli il respiro, pungendogli gli occhi. Per un attimo fu tentato di girarsi e correre via, ma poi si rese conto con stupore che la sensazione era piacevole; se avesse dovuto paragonarla a qualcosa di già vissuto, avrebbe detto che somigliava all’abbraccio di un genitore.
Osò dunque fare un altro passo nella galleria e poi un altro ancora, finché girato un angolo non si ritrovò in uno slargo pressappoco circolare: al centro era un grande fuoco, alto fino al soffitto, che ardeva indisturbato da millenni, apparentemente senza alcun combustibile. Lingue di fuoco rosso, giallo e blu si dimenavano e danzavano, prima agitandosi e poi placandosi, muovendosi sinuose come per invitarlo a unirsi a loro. Un umano non avrebbe potuto resistere più di pochi secondi a quella temperatura; ma Fenis non era umano, non del tutto, e solo ora se ne rendeva pienamente conto. La profezia era vera, doveva essere vera. Mai aveva visto qualcosa di più vivo di quel fuoco, con le sue mille estremità danzanti, cangianti, più calde di qualsiasi abbraccio, di qualsiasi madre. Quel fuoco che sembrava offrirgli spontaneamente la vita di cui aveva bisogno.
Come fosse stata la cosa più naturale del mondo, Fenis camminò fino a scomparire tra le fiamme.
 
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