| Dietro la schiena
Aprii gli occhi di scatto. Era stato solo un incubo. Uno dei tanti. Non ci si abitua mai però. Un senso di confusione mi ronzava in testa in un turbinio di pensieri che non sapevo distinguere. Eppure era tutto così chiaro: l’incubo più nitido che avessi mai avuto. E pian piano, assieme alla consapevolezza, cominciava a farsi largo in me anche la paura. Stava per tornare. E poi tutto si sarebbe avverato. In fondo l’avevo sempre saputo che sarebbe finita male, ma nemmeno i miei più terribili pensieri erano mai arrivati a ideare simili prospettive. E ora l’incubo mi aveva rivelato tutto. Dovevo fuggire, ma a che scopo? Mi avrebbe trovata e avrebbe completato il suo piano. Qui e ora oppure altrove e poi: le due alternative erano differenziate solo dal tempo del mio terrore senza speranze.
Ogni volta che chiudevo gli occhi, quelle immagini tornavano sempre più nitide e dettagliate. E si ripetevano ancora e poi ancora e poi di nuovo. Mi avrebbero portato presto all’esasperazione se non avessi trovato un modo per allontanarle da me in attesa del suo ritorno, giusto il tempo di pentirmi di averlo amato, di avergli lasciato toccare il mio cuore con il suo. L’errore peggiore della mia vita e quello più bello.
Per allontanare la mente dal delirio del sonno, mi alzai e andai in cucina: pensavo che un caffè avrebbe potuto svegliarmi e distogliermi da quelle macabre immagini. Presi la caffettiera e iniziai a riempirla di acqua e poi di caffè. La mia calma apparente mi angosciava più della paura. Io che della rassegnazione avevo fatto un vanto e della pazienza sofferta una virtù. Quando mi voltai per raggiungere il fornello, il mio sguardo si posò sull’anta dell’armadietto sotto il lavandino e d’improvviso un’immagine dal sogno si fece così concreta e mi agitò al punto da affannarmi il respiro. Il fiato cominciò ad arrancare mentre il cuore alternava la tachicardia a momenti di allarmante silenzio. Fermati, cuore, pensavo, fermati e lasciami morire.
Socchiusi gli occhi e la scena dell’incubo si ripresentò ancora, sempre più viva. Lo vidi entrare dalla porta, con quel suo sorriso incantevole ma al quale rispondevo sempre con una certa diffidenza. Aveva una mano dietro la schiena. Non sapevo cosa portasse con sé, ma il fatto che me lo volesse nascondere non preannunciava nulla di buono. Io stavo cucinando: tagliuzzavo a dadini della verdura. «Eccomi, tesoro» disse vedendomi. Io, sovrappensiero, mi feci un piccolo taglio sull’indice sinistro. «Ahi» esclamai. «Tutto ok, piccola?». «Un taglietto da nulla, tranquillo, non ti avevo sentito arrivare». Come per uno squalo, fu come se l’odore del mio sangue accendesse in lui tutta la sua ferocia. Sul suo volto il sorriso si increspò in una smorfia che aveva un sapore quasi demoniaco. «Vieni qui, subito». «Così mi fai paura…». «Non c’è niente da temere, vieni». Feci qualche passo nella sua direzione, con la mano destra intenta a tener chiusa la piccola ferita, mentre qualche goccia di sangue stillava sul pavimento disegnando perle scure e dense. «Ecco, brava» sentenziò. In un istante, vidi la sua mano uscire da dietro la schiena. Cingeva una piccola pistola che poi prese a due mani. Tese le braccia davanti a sé a pochi metri da me. Lo stupore mi annebbiava la vista, ma il senso di sopravvivenza mi spinse a muovermi improvvisamente. Schivai un colpo. Non riuscivo nemmeno a credere che avesse potuto vibrare davvero quel proiettile. Non era possibile accettare che colui che amavo potesse arrivare a un gesto simile. Avevo sempre avuto timore di lui, ma mi ero ripetuta mille volte che si trattava di paure infondate e sciocche. E quella volta avere avuto ragione era per me davvero insopportabile. Lui era lì, sempre a braccia tese, stupito nel vedermi ancora in piedi. «Fermati, ti prego, faremo finta di niente» riuscii a biascicare cercando di raggiungere i suoi occhi con i miei, confidando che un minimo di pietà l’avrebbe convinto a desistere, che gli sarebbe mancato il coraggio di premere di nuovo il grilletto. Non un dubbio però attraversò il suo sguardo e il suo cuore. Cercai di allontanarmi dalla cucina, dove ero facile preda, e corsi verso la porta di casa, ma la trovai chiusa a chiave. Le lacrime disegnavano righe salmastre sul mio volto confuso, cercai di asciugarle e s’impastarono con il sangue del dito tagliato poco prima. «Ti sei sporcata tutta la faccia, tesoro». La dolcezza di quelle parole era graffiante in quella drammatica situazione, ma pensai che si fosse finalmente calmato. Appoggiò la pistola sul tavolo del salotto e mi porse un fazzoletto. Io ero troppo confusa per capire. Fu lui ad asciugarmi le lacrime insanguinate, con una dolcezza disarmante, mentre la mia schiena stava appoggiata alla porta di casa. «Dai, tesoro, andiamo in cucina, finiamo di preparare la cena, vuoi?». Io non capivo, non potevo capire. Confidando che fosse tutto finito lo seguii fino alla cucina. Nemmeno notai che aveva preso la pistola dal tavolino e la teneva in mano. Appena arrivai vicino al tavolo, mi colse di sorpresa spingendomi con violenza contro la parete. Dopo l’impatto, come se le forze mi avessero lasciata del tutto, scivolai a terra, davanti al mobile del lavandino. «Perché mi fai questo?» gli dissi, devastata da quei suoi sbalzi d’umore. Lui non rispose. Tese le braccia pronto a fare di nuovo fuoco e io mi rannicchiai sempre più sperando di poter sparire senza lasciare alcuna traccia di me. I colpi partirono dopo pochi secondi, il tempo di un’infinità di speranze disilluse. Sentii distintamente i primi proiettili lacerarmi la carne. Era una sensazione così concreta che ogni punto che si squarciava sotto i colpi era direttamente percepibile. E quel supplizio continuava con il cuore che non riusciva a smettere di battere. Un colpo dopo l’altro, troppi perché potessi contarli.
Solo a quel punto mi ero svegliata con sudore freddo sul corpo e sul cuore. Di scatto mi ero voltata verso la sua metà di letto, ma lui non c’era. Non era lì con il suo solito sorriso tranquillo da bambino felice che, dopo quel brusco risveglio, consideravo il più terribile dei ghigni. Era stato solo un incubo. Uno dei tanti. Da quando mi ero trasferita da lui perché avevo perso casa mia, i sogni erano popolati di atroci sensazioni. Mi ero alzata con la testa confusa, ma avevo cercato di far finta di nulla. Poi la semplice vista di quell’angolo vicino al lavandino mi aveva riportato tutto anche troppo vivamente alla memoria. Era stato tutto maledettamente reale. Da quel momento le ore erano trascorse lente e angoscianti come in una stanza dalle pareti che progressivamente si stringono. Giunta quasi l’ora di pranzo, mi misi tranquilla a preparare da mangiare, fingendomi ignara della mia sorte.
In quel momento, la porta di casa si aprì e lui entrò. Notai subito che aveva una mano dietro la schiena e restai attenta a ogni segnale di pericolo. «Eccomi, tesoro» disse vedendomi. Era tutto come nell’incubo e, distratta da quell’atroce presa di consapevolezza, mi feci un piccolo taglio sull’indice sinistro. «Ahi» esclamai. «Tutto ok, piccola?». «No, non è tutto ok!» mi misi a gridare. «Vieni qui, tesoro». «Stammi lontano!». Non avevo intenzione di prolungare invano la mia agonia: mi accasciai piangente contro il mobile sotto il lavandino. Lì sarebbe successo tutto. Aspettavo solo di sentire i colpi e di porre fine a quel delirio. Non aveva senso fuggire e nascondersi: tanto valeva passare al capitolo finale del sogno, risparmiandomi vane sofferenze. «Che stai facendo? Che ti succede?» domandò con un’aria turbata che io interpretai subito come mendace. «Fai quel che devi fare. Almeno la crudeltà dell’attesa risparmiamela» replicai, cinica e arrabbiata. Una rabbia che veniva dalla paura e dalla rassegnazione. «Io non capisco, tesoro. Alzati. Parliamone. Non è così che devono andare le cose». «Mi dispiace, ma proprio non ho intenzione di seguire il copione. Se così non ti diverti, non è un problema mio: fare la preda che scappa non è nel mio stile». «Amore, guardami negli occhi… dimmi che c’è. Mi stai facendo preoccupare». «Ah, io ti faccio preoccupare… interessante. Abbi pietà, non ne posso più. Basta con tutte queste parole, sono ben peggio della morte». «Tesoro, non mi aspettavo che fossi d’accordo, però sinceramente…». «Come se si potesse essere d’accordo!» gridavo, con quella poca forza che restava attaccata al mio corpo, mentre tremavo come spiga di grano mossa dal vento, in completa sua balia. «Stupido io a pensare che tu potessi amarmi. Ti conosco fin troppo bene». «Ma io ti amo, solo che…». «Ok, ho capito… non servono altre parole. Ora me ne vado». Rimasi completamente sconvolta. Finalmente mosse la mano da dietro la schiena. Io mi rannicchiai ancor di più, gemendo e piangendo senza alcun ritegno. Con le braccia mi nascondevo il volto. Dalla sua mano scivolò qualcosa che fece un rumore metallico, poi, senza dir nulla, si voltò e si allontanò. Solo quando sentii la porta sbattere mi azzardai ad aprire gli occhi. Se n’era andato. Ero salva.
Credevo di aver capito tutto e invece della vita non sapevo proprio nulla: davanti a me, in una piccola scatolina aperta, s’intravedeva un anello.
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Mi dispiace tanto partecipare nella sezione "No comment"... speravo di farcela questa volta, ma sono riuscita a commentare solo pochissimi racconti e la mia situazione al momento non mi consentirebbe di commentarli tutti con la cura che vorrei, quindi meglio lasciar perdere... il racconto però l'avevo scritto e quindi lo posto qui. In attesa di tempi migliori per tornare a essere pignola con tutti voi, un caloroso saluto!
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