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Ricorda chi sei - Davide Schito

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Davide Schito
view post Posted on 11/3/2013, 20:09




Ciao viv! Sono contento che tu abbia colto l'omaggio a Beckett della parte iniziale! Grazie mille per il tuo commento!!! :D
 
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Esterella
view post Posted on 15/3/2013, 09:30




Mi è sembrato di essere a teatro e gustare una bella rappresentazione i dialoghi sono veramente accattivanti. Mi è sembrato di notare una piccolissima pecca, manca lo spazio dopo i trattini sospensivi, forse un errore di formattazione. Il racconto è bellissimo e il fatto che si intuisce il finale non lo penalizza perchè tu sai raccontarcelo molto bene e tieni incollato il lettore fino all'ultimo rigo. Complimenti. :wub:
 
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Davide Schito
view post Posted on 15/3/2013, 19:18




Grazie! Per quanto riguarda la formattazione dei puntini non mi ricordo mai se ci va lo spazio o no dopo...va beh nel caso faremo lavorare un po' stray dog! :)
 
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view post Posted on 15/3/2013, 21:16
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CITAZIONE (Davide Schito @ 15/3/2013, 19:18) 
Grazie! Per quanto riguarda la formattazione dei puntini non mi ricordo mai se ci va lo spazio o no dopo...va beh nel caso faremo lavorare un po' stray dog! :)

Dipende da dove metti i puntini... In questo caso, spazio e maiuscola.
...in questo caso niente spazio nè maiuscola.
Spero che l'esempio sia chiaro più di una spiegazione teorica :P :D
 
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Davide Schito
view post Posted on 17/3/2013, 00:52




Grazie viv! A occhio quindi dovrei aver fatto giusto...
 
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slayercetty
view post Posted on 22/3/2013, 01:16




Non so cosa scriverti esattamente, se non che ho trovato il tuo racconto geniale :) .

Mi ha coinvolto, mi ha fatto pensare e alla fine mi ha lasciato una piacevole sensazione dolceamara.

Lavoro magnifico, sicuramente sul mio podio. :P

Bravissimo… :lol:
 
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Davide Schito
view post Posted on 26/3/2013, 23:44




Grazie mille Cetty! :D
 
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vanuccinilido
view post Posted on 27/3/2013, 22:15




Racconto valido, corretto, un pò lunghetto ma non stancante; dialoghi appropiati.
La fine ti lascia un po' di amaro in bocca. Rientra però nella logicale nella tematica
del concorso: Direi... bravo!
 
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francesca vernazza
view post Posted on 2/4/2013, 10:54




Ciao secondo me il tuo raCCONTO è MOLTO BELLO. :)
A mio parere è scritto molto bene, e si legge velocemente, fino alla fine. :D
In modo particolare mi è piaciuta la divisione in paragrafi in cui hai suddiviso la storia. :D
Ti faccio i miei complimenti!!!!!!! :) e in bocca al lupo!!!!!!!!! :)
 
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Lily White
view post Posted on 3/4/2013, 13:48




Ciao Davide!
Molto bello. Devo dire che a me più che Waiting for Godot ha ricordato The Dumb Waiter di Pinter, che è ambientato tutto in una stanza...comunque lo zampino del teatro dell'assurdo c'è. Mi è piaciuto, soprattutto il finale in cui i due protagonisti prendono strade diverse...
La scatolina misteriosa che l'uomo consegna mi ha ricordato un po' Mulholland Drive di Lynch!
 
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Davide Schito
view post Posted on 3/4/2013, 13:59




Grazie @lido, @francesca @lily! :D
CITAZIONE
La scatolina misteriosa che l'uomo consegna mi ha ricordato un po' Mulholland Drive di Lynch!

Ahhh il mio maestro Lynch...
 
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view post Posted on 27/4/2013, 13:55
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Fabrizia

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I. La scatola

Fu John a sentire il rumore per primo. All’inizio lo ignorò, attribuendolo alla sua immaginazione o alla noia. La seconda volta però fu più forte. Non poteva sbagliarsi. Quei colpi, ripetuti a intervalli troppo regolari per essere casuali, esistevano davvero.
«Jane! Jane!» si mise a strillare. E Jane non tardò ad arrivare. Aveva lo sguardo seccato di chi è stato appena interrotto nel bel mezzo di qualcosa di troppo importante.
«L’hai sentito anche tu?» le chiese tendendo l’orecchio verso il punto dal quale aveva sentito provenire il rumore qualche istante prima. Rumore che, in ogni caso, era cessato subito, lasciando posto al solito pesante silenzio.
Già, il silenzio. A volte sembrava avvolgere ogni cosa, nella grande stanza. Non che ci fosse granché dentro. Jane se ne lamentava sempre: di tanto in tanto borbottava tra sé e sé, e John non era mai riuscito a distinguere fino in fondo le parole che pronunciava, ma sapeva che avrebbe voluto che la stanza fosse stata diversa. Una pianta lì, nell’angolo, un divano rosso, magari di quelli morbidi con tanti cuscini, e un letto a due piazze. A baldacchino magari, come quelli delle favole.
“Stupida, stupida donna” pensava allora, ma non dava mai voce a questi pensieri, perché in fondo aveva paura di lei e di come avrebbe potuto reagire. Non poteva dire con esattezza di conoscere a fondo quella donna. Era soltanto lì insieme a lui. Ogni tanto parlavano, certo, ma sempre del più e del meno, discorsi vaghi. Erano come due compagni di ascensore, solo che il loro ascensore era una grande stanza scarsamente ammobiliata e non si fermava mai a nessun piano.
«Cos’hai sentito stavolta, John? Ci risiamo con le allucinazioni? Dimmi di no, per favore. Dimmi che non è come l’altra volta.»
«Dimentica l’altra volta. Questa volta è vero» rispose con una punta di emozione nella voce. «Questa volta l’ho sentito davvero. Proveniva da lì.» E indicò il grande portone nero in ferro.
«Da lì» ripeté Jane a metà tra l’incredulo e il compassionevole. «Cioè, fammi capire. Mi stai dicendo che qualcuno ha bussato alla porta. Questo sì che è davvero, davvero ridicolo.»
Fece per tornarsene dall’altro lato della stanza, da dove era venuta, impegnata a fare chissà cosa. Ma si fermò subito. Perché stavolta l’aveva sentito chiaramente anche lei. Quattro colpi, in rapida successione. Dalla porta.
John e Jane rimasero bloccati per qualche secondo. Questa sì che era una novità. Da quando erano nella stanza nessuno aveva mai bussato. In effetti, e lo pensarono all’unisono, nessuno era mai entrato o uscito da quella porta. Né si era mai aperta. Era semplicemente sempre stata lì, come ogni altra cosa.
«Che facciamo ora?» chiese Jane, lo sguardo preoccupato. Lei non era brava con le novità. Per quanto riuscisse a ricordare, non c’era mai stata alcuna novità da gestire. Semplicemente non aveva mai dovuto pensare a niente che fosse ignoto o sconosciuto. Tutto ciò che conosceva era nella stanza, e la stanza era tutto ciò che aveva sempre conosciuto. Se c’era stato un passato non lo ricordava, ma dubitava che ci fosse stato. Anzi, la nozione stessa di passato era per lei qualcosa di vago, un concetto troppo astratto che, per quanto si sforzasse, non riusciva mai ad afferrare.
La risposta di John – ammesso che ne avesse pronta una – non arrivò mai. La porta si aprì prima che potesse aprire bocca. Si aprì senza alcun rumore di serrature o di cardini che strisciano gli uni sugli altri. Si aprì come se non fosse così pesante come sembrava.
E da essa apparve un uomo.
La loro prima impressione fu fosse molto anziano. Forse era per via della capigliatura tutt’altro che folta, il cui colore tendeva a un grigio di una gradazione più vicina al bianco che al nero. Il suo viso era solcato da poche ma decise rughe, soprattutto sulla fronte e intorno agli occhi, e il suo sguardo era di quelli decisi, lo sguardo di uno che quando ti parla ti fissa negli occhi finché non ti fa abbassare la testa.
Era vestito elegantemente. D’altri tempi, avrebbe detto John se solo avesse saputo di che tempi stesse parlando, e se esistessero, o fossero mai esistiti, tempi diversi dal qui e ora in cui si era sempre trovato.
Quello che più di tutto attirò l’attenzione dei due però erano le due scatole che teneva sul palmo delle mani. Come se fosse stato un cameriere e stesse portando dei vassoi pieni di prelibatezze.
Senza dire una parola l’uomo allungò il braccio destro e porse una delle due scatole a John, dopodiché ripeté lo stesso movimento col sinistro e consegnò la seconda a Jane.
Per un attimo gli sguardi di John e Jane si incrociarono. Come a chiedersi in un linguaggio privo di parole: “Che facciamo adesso?” Poi, quasi in modo sincrono, con un movimento rapido presero in mano le scatole. Erano di legno, rettangolari, con una fibbia in metallo su uno dei lati lunghi, che le teneva chiuse. Sul coperchio erano incisi i loro nomi.
I due iniziarono a fissare ciascuno la propria scatola, indecisi sul da farsi. C’era davvero da fidarsi di questo strano tizio silenzioso? Da quando erano nella stanza nessuno era mai entrato o uscito, e nessuno, quindi, aveva mai cercato di far loro del male. Ma c’è sempre una prima volta, rifletté John, che per natura era diffidente verso tutto e tutti.
Fu proprio lui il primo a sollevare lo sguardo dalla scatola. Ma nel punto occupato dal misterioso uomo non c’era più niente, e la porta si era richiusa senza alcun rumore, esattamente nel modo in cui si era aperta poco prima.

II. Il primo ricordo

A John tremavano le gambe mentre teneva in mano la scatola come se fosse una bomba pronta a esplodere. Per quanto ne sapeva, poteva esserlo davvero. L’uomo misterioso era svanito nel nulla, in un attimo, senza dire una parola.
Non ricordava di essersi mai sentito così. Da una parte c’era la paura di quella scatola misteriosa e del pericolo che avrebbe potuto rappresentare. Dall’altra, però, c’erano l’eccitazione di avere tra le mani qualcosa di sconosciuto e la curiosità di scoprirne il contenuto.
Nella stanza non era mai esistita la curiosità. La stanza era sempre stata la stessa, gli oggetti che conteneva non erano mai cambiati, erano semplicemente sempre stati lì e sia John che Jane ne avevano ormai accettato l’esistenza come qualcosa di inevitabile e assoluto.
Accarezzò il coperchio della scatola con il palmo della mano. Era leggermente ruvido al tatto. Lesse il suo nome inciso sopra: era la prima volta che lo vedeva scritto.
Poi successe, in un attimo. Con un movimento del pollice fece scattare la fibbia e la scatola si aprì.
Si accorse che anche Jane aveva appena aperto la sua. I due avevano compiuto i medesimi gesti, come fossero allo specchio, in un rituale sincronizzato al secondo.
Finalmente trovò il coraggio di guardare dentro. E sebbene non sapesse esattamente cosa aspettarsi, ciò che vide lo lasciò estremamente deluso.
La scatola infatti conteneva solo un foglio di carta piegato in quattro. John lo aprì, e al suo interno trovò scritta una breve frase in stampatello, incisa con un pennarello nero.
“Ricorda chi sei”, recitava.
Lo pronunciò ad alta voce e mentre lo diceva si rese conto che le loro voci erano diventate una sola. Entrambi avevano letto la stessa frase dal proprio foglio, inserito nella rispettiva scatola.
«Ricorda chi sei» ripeté Jane. «Che diavolo significa? Io so esattamente chi sono» aggiunse risentita.
«Forse non intende questo.»
«E che cosa intende, allora?»
«Forse – e sottolineo forse – intende dire: ricorda chi eri. Prima.»
«Prima quando?»
Jane era confusa.
«Prima, Jane! Prima!» John stava cominciando a perdere la pazienza. «Insomma, alla fine cos’è che ricordi? Di te, intendo?»
Jane sbuffò. Si stava stancando di questa situazione surreale e di questa conversazione che sembrava non arrivare da nessuna parte. Ma soprattutto odiava non poter replicare. La verità, però, e lei lo sapeva, era che in fondo John aveva colpito nel segno.
Lui lo capì e decise di affondare il colpo.
«Dove sei nata? Quando? Me lo sai dire? Chi erano i tuoi genitori? Da quanto tempo ti trovi qui?»
«Io… io non lo so!» urlò, e scoppiò in un pianto dirotto.
«Ricordo te» riprese quando si fu calmata, «e la stanza. E…» Si fermò, lo sguardo sospeso nel vuoto. A un tratto il viso ancora bagnato di lacrime si illuminò. «E c’era un cane. Prima. Sì, sì, un cane! Che correva!»
«Un cane? Nella stanza?»
«Ma no, non nella stanza! Fuori dalla stanza!» rispose Jane soddisfatta. Ora era lei ad avere il coltello dalla parte del manico.
«Perché, sentiamo, tu invece» insinuò, «cosa ricordi?»
John se l’aspettava questa domanda. Rispose di getto.
«Il sangue.»
Jane lo guardò inorridita.
«C’era tanto sangue» proseguì lui. «Rosso. Denso e viscido. Sulle mani, sugli occhi. Sui capelli tutti impiastricciati. E poi un suono penetrante, una sirena. Tutto qui. Contenta ora?»
Sembrava svuotato, come se si fosse finalmente liberato da un enorme peso opprimente. Jane gli si avvicinò e gli posò dolcemente una mano sulla spalla.
Lui alzò la testa e la guardò. Era bella. Era la prima volta che lo notava.
«Parlami del cane» le disse.
Il viso di lei si rabbuiò.
«Non c’è molto da dire, purtroppo. Ogni tanto ci penso, ma i dettagli sono sempre molto vaghi. E diminuiscono sempre di più. Non sono nemmeno così sicura che sia reale.»
«Sono sicuro che lo è» disse John appoggiando la sua mano su quella di Jane, che non si ritrasse.

III. Il telefono

Non avevano più parlato della scatola né dei ricordi. Quei momenti, che per un attimo avevano scosso le loro monotone esistenze, erano stati immediatamente riassorbiti nel rassicurante tessuto della normalità. Avevano ripreso la loro vita di sempre nella stanza, come se niente di tutto ciò fosse mai successo. Il tempo si era congelato di nuovo e la stanza aveva ricominciato a essere l’eterna bolla che era sempre stata. Fino a quando il telefono, da sempre muto, non cominciò a squillare.
«Pronto!» John si precipitò ad alzare la cornetta e rispose. Jane era lì accanto a lui e aspettava tormentandosi le mani per l’impazienza, nell’attesa che il suo compagno di stanza replicasse a chiunque ci fosse all’altro capo.
Ma lui non disse una parola. Tenne lo sguardo fisso di fronte a sé per un tempo che a lei sembrò interminabile. Alla fine ripose la cornetta sul ricevitore. Era pallido come un fantasma.
«Insomma, si può sapere chi era? Che ti ha detto?» lo incalzò lei, curiosa.
John era visibilmente scosso. Le mani gli tremavano e non aveva ancora ripreso colore.
«Nessuno. Non era nessuno» disse alla fine per togliersi di dosso lo sguardo insistente di Jane. La mossa però non funzionò affatto, perché la donna divenne ancora più curiosa.
«Come nessuno? Vuoi dire che nessuno ha parlato? E perché sei stato tutto quel tempo con la cornetta attaccata all’orecchio allora? Potevi mettere giù subito» puntualizzò.
«Io… ho sentito solo del rumore. Come di qualcosa che si rompe, un rumore fortissimo e penetrante. E poi il fuoco crepitare, potevo quasi sentire il calore filtrare attraverso la cornetta.»
«E cosa pensi che significhi?»
«Non lo so… e se avesse a che fare con la scatola? È iniziato tutto così, in fondo! Forse qualcuno, o qualcosa, vuole… che ne so… spingermi, spingerci a fare qualcosa. A ricordare di più, forse. A ricordare chi siamo, da dove veniamo. Perché siamo qui.»
«E se volessero invece farci uscire?»
«Uscire? Per andare dove?»
«Non lo so! Ma quell’uomo, quello delle scatole… doveva pur venire da qualche parte, no? E quando se n’è andato, se ne sarà pur andato in qualche posto!»
Come al solito la logica di Jane non faceva una piega. Eppure l’idea di uscire dalla stanza era così assurda. Perché mai avrebbero dovuto uscire? L’idea che fuori potesse esserci qualcosa, qualcuno addirittura, non li aveva mai sfiorati. Non avevano mai pensato nemmeno lontanamente alla cosa. John si domandò perché non l’avessero mai fatto, ma non riuscì a trovare una spiegazione. Era semplicemente andata così.
Guardò Jane alzarsi dalla sedia sulla quale era seduta e dirigersi verso la porta.
La guardò afferrare la maniglia e tirare verso di sé, ma non successe niente, la porta non si aprì.
«Stupida! Credi che non ci abbia mai provato ad aprirla?» mentì spudoratamente per farla sentire in colpa. Lei allora abbassò la testa in segno di resa e fece per tornare a sedere. Ma qualcosa la bloccò.
«E ora che c’è?» chiese John spazientito.
«Ascolta. Vieni, vieni qui subito!»
John si alzò controvoglia. Accostò l’orecchio al freddo portone d’acciaio e attese.
Fu allora che le sentì.

IV. Le voci

Voci.
Tantissime voci che parlavano lingue sconosciute. O forse erano troppe, che parlavano tutte insieme, e le parole non si distinguevano.
«Non capisco. Chi sono? Cosa dicono?» domandò John.
Jane sorrise.
«Ci stanno chiamando, John. Vogliono che andiamo con loro. Dicono che è bello, là fuori. Non come la stanza. È diverso. Ci sono prati in cui correre. Ci sono notti stellate illuminate appena dal chiarore della luna e lunghe, calde giornate di sole. Potremo finalmente essere felici. Insieme.»
«Non sai nemmeno se sono reali» cercò di obiettare John.
«Certo che sono reali. Più di me e te. Più della stanza. Non mi chiedere come lo so. Semplicemente lo so. Ne sono sicura. È la cosa giusta da fare.»
«E la scatola? Ricorda chi sei? Che significa? Ce l’hanno portata loro? Sono loro che vogliono che ricordiamo?»
Jane lo fermò con un gesto della mano e riprese ad ascoltare le voci. Solo lei poteva capirle, per John non erano altro che incomprensibile rumore bianco.
«Dimentica la scatola. Dimentica. Ricordare non ha senso. Il passato non ha senso, non esiste. Non più. Non esiste il tempo. Ciò che eri, qualsiasi cosa fossi, non lo sarai più. Ora puoi scegliere. Se unirti alle voci o rimanere qui per sempre.»
Ma John non voleva uscire. E se fuori ci fosse stato il sangue? Quello dei suoi ricordi, anzi dell’unico ricordo che aveva, ammesso che fosse reale. Ogni volta che ci pensava un brivido gli risaliva lungo la schiena. Ora stava bene, in fondo, pensava. La stanza era rassicurante, nella stanza tutto era esattamente ciò che sembrava.
Fuori invece? Cosa avrebbe trovato? Ma soprattutto, c’era davvero qualcosa fuori? L’esistenza stessa del misterioso uomo delle scatole confermava questa ipotesi. E allora perché non li aveva fatti uscire, perché non li aveva portati con sé?
Dall’altra parte, però, c’era Jane. Jane che era stata subito conquistata dalle voci oltre la porta, che le capiva ed era subito entrata in connessione con loro. Che si fidava ciecamente.
«Tu hai già scelto, vero?»
«Sì, John. Ho già scelto.»
Una lacrima le solcò il viso mentre pronunciava queste parole.

V. Epilogo

Nella stanza del reparto rianimazione del grande ospedale ci sono due letti. Uno di essi è vuoto. L’infermiera ha appena portato le nuove lenzuola, questo cambio è l’ultimo prima della fine del turno. Finalmente, pensa. Non vede l’ora di andare a casa, farsi un bagno e passare una bella serata rilassante guardando il suo telefilm preferito.
Entra il giovane dottore del turno di notte. Lui invece ha appena attaccato. Guarda il letto vuoto e scuote la testa.
«Se n’è andata. Mi dispiace» gli dice l’infermiera, sottovoce.
«E lui?» chiede il giovane dottore indicando il letto a fianco, occupato da un giovane. Avrà sì e no trent’anni. È attaccato alle macchine da due mesi ormai, solo loro lo tengono in vita.
L’infermiera alza le spalle e scuote la testa.
«Sempre uguale.»
«Si è fatto avanti qualcuno per identificarli?»
«Ancora nessuno» risponde, e reprime a fatica uno sbadiglio di stanchezza.
Il giovane dottore annuisce ed esce dalla stanza.
Sarà un’altra lunga notte.
 
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41 replies since 21/2/2013, 22:51   473 views
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