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GIU' - Giuseppe De Micheli, Racconto per 'BRIVIDI'

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pulcino82
view post Posted on 9/11/2012, 18:11




Ciao!!!! Per quanto riguarda lo stile, concordo con gli altri che ci sono troppe ripetizioni e troppe descrizioni tecniche che rendono la lettura pesante. Dovresti far respirare di più i personaggi. Dimostri di conoscere e di descrivere bene il mondo della speleologia, ma per un horror questo racconto purtroppo non dà brividi perché ti soffermi troppo sulla tecnica del lavoro dello speleologo, mettendo un po' nell'ombra l'opportuna suspence. In bocca al lupo!
 
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caterina.russo
view post Posted on 9/11/2012, 23:50




Molto originale sia il tema dei batteri famelici sia l'ambientazione.
Il linguaggio tecnico è giusto usarlo ma senza esagerare quindi ti consiglio di sfortirlo un pò.
L'unica cosa che proprio non mi è piaciuto è l'uso del presente che, a mio parere, smorza molto la tensione.
In effetti anch'io ho provato pochi brividi ma premio l'originalità quindi complimenti e in bocca al lupo.
 
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luciastefania
view post Posted on 10/11/2012, 16:23




ciao giuseppe, hai fatto incazzare davide :D
scherzo ovviamente!
Bene o male ti hanno detto tutti la stessa cosa e non sarei sincera discostandomi dall'opinione generale sul racconto. Le cose sono due: o resti fedele al tuo stile ed il mondo prima o poi l'apprezzerà oppure movimenti un po' il racconto.
Che altro dire, spero che l'originalità ti faccia guadagnare punti di fronte alla giuria, non vedo l'ora di vedere la classifica!!!
 
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francesca vernazza
view post Posted on 10/11/2012, 21:33




Ciao nel tuo racconto ho notato che ci sono delle ripetizioni soprattutto all'inizio ripeti spesso le parole (prato e buco), e c'è anche qualche errore di punteggiatura.

Comunque per il resto la storia non è male, mi è abbastanza piaciuta, e non è scritta malissimo. :D
In bocca al lupo !!! :D e buona fortuna!!! :)
 
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view post Posted on 22/11/2012, 22:43
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Fabrizia

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Un buco in un prato, un semplice buco in un prato in declivio: è un inghiottitoio, l’ingresso di una cavità scavata dall’acqua nel ventre della terra. Giù, sotto il prato, il buco si allarga, si ramifica, si espande, diventa meandri, colonnati, pozzi, saloni. Su è solo un buco, quello in cui si sta infilando Lisa.
Rosso, invece, sta contemplando un altro buco, un buco nella mela che ha appena addentato. Rosso è disgustato: «Cosa c’è di peggio che trovare un verme nella mela?»
«Trovarne solo mezzo.»
Lisa risponde mentre sta calandosi nel buco del prato, di lei sporgono soltanto il casco, il viso e il corpo dalla vita in su. Sembra un verme che cerca rifugio nel ventre della sua mela azzannata.
«Perché è peggio trovarne solo mezzo?»
«Perché vuol dire che l’altra metà ce l’hai in bocca.»
Lisa scompare nel buco. Ramon cala il sacco numero sette e si accinge a scendere a sua volta.
«Blaah!!!» Rosso sputa il boccone, poi scaraventa sul prato il resto della mela. «Magari il mezzo verme l’ho già mandato giù. Blaah!»
«Magari ne hai mandato giù uno intero, bamba. Dai, cala il numero otto e scendi.» La mela sbocconcellata è rotolata sul prato e si è infilata nel buco, fra le gambe di Ramon, e adesso chissà dove sarà finita. «E non piangere sulla mela buttata, pensa a quanti bei troglobi sfamerà, laggiù nella grotta.»
Gli speleologi dicono futilità per nascondere l’angoscia che li attanaglia: stanno scendendo nell’Abisso delle Nottole per cercare di recuperare i corpi di due sventurati compagni.
Ramon scompare, Rosso gli cala l’ultimo sacco, il numero otto, e si infila a sua volta nel buco. Quanti troglobi sfamerà quella mela sbocconcellata, e quanti altri si ciberanno del resto di quel vermaccio che gli ha rovinato la colazione? Giù, nelle viscere della terra, di solito arrivano solo detriti, e in piccole quantità. I detriti sono il primo anello della catena alimentare ipogea, come la luce è il primo anello di quella superficiale. Ottanta grammi di mela devono essere una gran bella massa di cibo per i troglobi, la fauna del sottosuolo, come se per noi, dal cielo, piombassero giù un migliaio di tonnellate di bistecche. «Buona mangiata bestioline; per voi, d’ora in avanti, io sarò il dio dell’abbondanza.»
Chissà che abbondanza sarebbe per gli animali delle grotte se gli lasciassero giù i corpi di Dani e di Giorgio, ma di quelli no, di quelli la fauna ipogea non si alimenterà perché gli speleologi li troveranno e li riporteranno fuori per seppellirli in un cimitero cristiano... per alimentare vermi, perché l’unica cosa certa è che ogni essere vivente è cibo per qualcun altro.
Giù.
Dopo la bocca d’ingresso, colatoi, gallerie, meandri orizzontali, forre e pozzi verticali, cunicoli, strettoie, sale, torrenti e laghi. Gli speleologi li percorrono passandosi il materiale l’un l’altro per superare i vari ostacoli.
I sacchi speleo non si portano a spalla come quelli da trekking, ma si reggono a mano, si spingono, si trascinano, si rotolano, secondo la morfologia del percorso. Nelle strettoie prima passa, o scende, la testa del gruppo, poi viene inoltrato il materiale, infine passa, o scende, la coda. Ma spesso la testa allunga il passo, i sacchi restano indietro, e la coda se li ritrova tutti sul groppone. Rosso, l’ultimo della schiera strilla a ripetizione: «Mandateli avanti, mica devo portarveli tutti io, ’sti maledetti sacchi!»
E il macabro scopo della loro discesa non lo aiuta a rimanere calmo. Fortunatamente i primi hanno il loro daffare: devono armare i pozzi, cioè assicurare le corde di discesa e di risalita e quelle di sicurezza. Così la coda può raggiungerli e rifiatare, e torna l’armonia nel gruppo. La speleologia è di gruppo, e nei gruppi l’armonia è tutto.
Sono arrivati al Pozzo Grande, ottanta metri di profondità, verticali.
Ancorato ad una solida stalagmite c’è ancora l’armamento di Dani e Giorgio. Indica il percorso che hanno seguito gli sfortunati speleologi. Senza quello la prima spedizione di soccorso non avrebbe ritrovato la fessura che conduce al “ramo del fango” (così lo avevano battezzato). Nessuno lo conosceva prima che loro lo trovassero. Dani e Giorgio ci erano arrivati probabilmente per caso: uno dei due, giunto alla fine della corda di discesa, si sarà agganciato a una parete preparando l’armo per la seconda frazione, proprio all’imbocco di una fessura diagonale che scendeva verso una spaccatura. Vollero esplorarla. Fu un colpo di sfortuna. Un metro più in là, o di qua o sopra o sotto, e non l’avrebbero visto, sarebbero scesi in fondo al pozzo seguendo la via normale e sarebbero ancora vivi.
Ma avevano trovato la fessura, l’avevano percorsa, poi si erano inoltrati in una galleria inesplorata straordinariamente umida e piena di argilla che conservava ancora le loro tracce. E poi? La galleria si concludeva con un ripido scivolo che conduceva a un lago di fondo. La spedizione di soccorso non aveva trovato altre uscite, né altre traccie degli scomparsi, né i loro resti.
E ora Rosso e Lisa e Ramon e gli altri accompagnano gli speleo sub incaricati di scandagliare il lago, l’unico posto in cui avrebbero potuto finire i due speleologi. Man mano che procedono la galleria diventa sempre più umida e gocciolante, una pioggia incessante che trasforma in un rigagnolo prima, in una palude di fango poi, il pavimento.
Il largo condotto finale è molto inclinato, un vero e proprio scivolo, coperto da un infernale spesso strato di argilla viscida e sdrucciolevole che rende facile la discesa, ma impossibile la risalita senza mezzi artificiali. C’è una grossa stalagmite che fa da ancoraggio naturale, risparmiando la fatica di piantare gli spit, ma attorno alla stalagmite non c’è traccia di armamento. Sembra a tutti impossibile che Dani e Giorgio siano scesi senza armare lo scivolo. Rosso avvolge attorno alla stalagmite una corda statica bloccandola con un elegante gassa e comincia a scendere tenendosi alla corda per frenare la velocità di discesa. Sa, perché ha partecipato alla prima spedizione di soccorso, che prima del lago sotterraneo c’è solo un breve terrazzino, anch’esso pieno d’argilla, e che a lasciarsi andare scivolando si finirebbe dritti nell’acqua.
Ramon questa volta scende per ultimo e ci mette parecchio tempo per osservare la strana argilla. È abbondante come non ne ha mai vista prima. Il tetto gocciola incessantemente da una miriade di piccole stalattiti a torciglione, lo strato di fango brilla riflettendo la luce per il velo d’acqua che le scorre sopra. Appena sceso lascia la corda, che viene quasi inghiottita dall’argilla.
Sul terrazzino c’è poco spazio, la sala in cui si trova il lago è un semplice imbuto con le pareti inclinate, il tetto è pieno di stalattiti che gocciolano incessantemente, non c’è nessuna stalagmite perché le gocce cadenti vengono inghiottite dall’argilla. Tutt’attorno alla superficie del lago pochissimi spazi orizzontali. Rosso impreca in continuazione contro l’argilla. Sta cercando il calcare duro da perforare per ancorare le luci d’orientamento dei sub, luci al carburo, bianche, luminosissime, visibili anche da grandi profondità che daranno ai sub costante indicazione della direzione in cui si trova la superficie. Rosso stende anche le corde di sicurezza per assicurare i sacchi del materiale; l’argilla spessa rende difficile il lavoro. Il lago è una superficie cupa, increspata incessantemente dai cerchi concentrici delle gocce di pioggia che cadono dalle stalattiti pendenti dalla volta. Sembra molto profondo, la luce penetra pochissimo sotto la superficie, la rende brillante e trasparente per pochi centimetri, trasformando le sospensioni in uno sciame di microscopiche lucciole, ma attorno alle pozze di luce l’oscurità si prende la rivincita. Anche la volta si perde in una lontananza spettrale. Finalmente le luci al carburo sono piazzate, due sub finiscono di calzare le pinne e si immergono con infinita cautela per non sollevare fanghiglia e scompaiono. Altri due rimangono fuori pronti ad intervenire in caso di emergenza.
Rosso, Lisa e gli altri speleologi si sistemano sui vari terrazzini. A loro non rimane che aspettare. Ramon invece esamina accuratamente la onnipresente argilla con un piccolo microscopio da campo che ha portato appositamente. La prima spedizione di soccorso gli aveva riferito che quell’argilla era particolarmente abrasiva, che aveva logorato le corde d’armamento e le suole degli stivali tanto che tutto il materiale usato aveva dovuto essere buttato via.
Informa i compagni di quello che sta scoprendo: «È incredibile la quantità di batteri che popolano questa argilla. E sono belli grossi, anche.»
Deposita gocce d’argilla in capsule di nutrienti vari e le esamina al microscopio.
«Ehi, che appetito! Si riproducono a vista d’occhio appena messi a contatto con l’agar.»
Le lampade disegnano cerchi sempre più stretti perché i sub scendono a spirale lungo le pareti del grande imbuto stando ben attenti a non toccarle per non intorbidare l’acqua con la fanghiglia. Cercano anfratti in cui possano trovarsi i corpi dei due sfortunati speleologi.
«O mioddio! Si mangiano anche le capsule. Il vetro no, i vetrini sono ancora intatti, ma il plexiglas delle capsule deve essere una leccornia per loro.»
Comincia freneticamente a staccare campioncini di ogni materiale che ha a disposizione, tessuto dal suo fazzoletto, il nailon delle corde, un pezzo di elastico rimastogli in tasca e li immerge nell’argilla per poi esaminarli al microscopio.
Le luci dei sub si fanno sempre più flebili man mano che aumenta la profondità, fino a sparire quasi del tutto. Ora sono due miseri puntini di luce che eseguono cerchi strettissimi. Devono essere prossimi al fondo del lago.
La voce di Ramon sembra scandire la loro discesa: «Ma questi batteri mangiano tutto! L’elastico se ne è andato. Anche il cotone del mio fazzoletto: l’han tutto digerito.»
La sua voce si alza di tono: «Secernono enzimi che dissolvono gomma, tessuti e plastica.»
E ora urla di allarme: «Andiamocene immediatamente. Richiamate i sub. Risalita d’urgenza. Mangiano anche il nailon delle corde. Ecco perché non abbiamo trovato l’armo di Dani e Giorgio. Se lo sono mangiati i batteri. Via, via, subito da qui, prima che distruggano anche il nostro.»
A un tratto un grido: «Il lago cala.»
«Mio Dio, è un sifone! Si sta svuotando!»
Il livello dell’acqua stava calando rapidamente e la superficie appariva in circolazione antioraria. Si stava formando un gorgo.
«Calate subito le corde, che i sub le afferrino appena emergono.»
Le luci dei sub riappaiono e ingrandiscono, non descrivono più dei cerchi, ma oscillano qua e là. Evidentemente cercano di risalire in verticale per riemergere e lottano contro la corrente discendente. Una luce scompare, l’altra appare brevemente in superficie. È un sub che tenta di aggrapparsi alle sponde, ma sono molto scivolose e ricade in acqua. Viene risucchiato in giù, ora la sua luce rotea su se stessa, è preda del gorgo. Comincia ad apparire il fondo del lago: per pochi istanti il sub cerca di puntellarsi con le gambe a squadra contro le sponde mentre l’acqua sparisce e sotto di lui appare un foro, palpitante come una valvola cardiaca. Le pareti franano e il sub è inghiottito dal buco che, immediatamente dopo, si richiude.
Poi, sopra, sotto e attorno al resto della squadra degli speleologi rimasti abbarbicati ai terrazzini in alto, tutto il fango d’argilla si mette in moto, grosse bolle si gonfiano sotto i loro piedi, li avvolgono e li trascinano verso il basso. Sotto la breve cengia la pendenza si accentua diventando insuperabile per chi è privo di appigli. Qualcuno si aggrappa al corrimano approntato da Rosso, ma il peso del fango fa loro mollare la presa. Gli uomini annaspano e si inarcano e graffiano il fango, ma scivolano inesorabilmente verso il basso e con loro tutto il materiale non agganciato agli spit. Grosse palle d’argilla si gonfiano, li avvolgono, li capovolgono, li sospingono in giù. Alla fine si vedono solo masse di escrescenze che rotolano in basso, dalle quali spuntano gambe e braccia e teste in agitazione frenetica tra urla di terrore e disperazione. La valvola di fondo si riapre per inghiottire uno alla volta i bubboni e il loro contenuto. Il tappo, alla fine, si chiude definitivamente e l’acqua che gocciola dalla volta, insieme a quella che scorre lungo le pareti, si raccoglie nuovamente innescando il processo che porterà al riempimento del lago.
Aggrappati agli spit rimangono solo Ramon, Lisa e Rosso. Quest’ultimo ha avuto la prontezza di agganciarsi ad uno di essi e di afferrare Lisa prima che venisse portata via da uno dei mortali gonfiori di fango. Ramon si era mantenuto assicurato per non scivolare nel lago durante la raccolta dei campioni d’argilla. Testimoni impotenti della tragedia dei loro compagni hanno urlato d’orrore per tutto il tempo, breve e infinito, della loro agonia.
Infine cade il silenzio, rotto solo dal picchiettio continuo delle gocce d’acqua che cadono sull’argilla.
Rosso è il più vicino allo scivolo d’ingresso dalla sala. Assicura Lisa a uno spit e risale cautamente per raggiungere l’estremità dell’armamento di sicurezza ancorato alla grossa stalagmite. A grandi bracciate toglie l’argilla per mettere a nudo la roccia e poggiare gli stivali su terreno solido, e nello stesso tempo per rintracciare la corda statica che rappresenta la loro unica possibilità di risalita. Ma non la trova. Sotto di lui si formano nuovi globi che tentano di sollevarlo, rovesciarlo e trascinarlo in basso. Altrettante palle si gonfiano attorno a Lisa e a Ramon che si difendono a colpi di braccia disfacendole. Dal basso cominciano a formarsi altre bolle che iniziano a risalire il pendio. Formano un’onda che sale fino a loro, li trascina, li supera, poi rifluisce verso il basso e li strattona giù. Le imbragature, i cordini e gli spit tengono, ma una seconda onda si sta formando e comincia a risalire.
«È una enorme colonia di batteri intelligente,» urla Ramon «agiscono in coordinazione.»
«Cosa ci sarà sotto il fondo del lago?»
«Lo stomaco della colonia, immagino.»
La seconda ondata intanto li ha risospinti in alto fino al limite della lunghezza dei cordini. Poi rifluisce. Il peso di questa seconda ondata è spaventoso. La fanghiglia di batteri si è addensata espellendo l’acqua e ora ha la consistenza della creta, si accumula addosso ai corpi aumentando il carico sugli ancoraggi che, prima o poi, saranno costretti a cedere.
«Trova questa benedetta statica» urla Ramon a Rosso, che scuote la testa. «Non c’è più. Vedo la stalagmite, ma non c’è traccia dell’armamento. Se lo sono mangiato. Siamo intrappolati qui dentro.»
«Si stanno mangiando anche gli stivali e le tute. Fra poco, anche se gli spit tengono, ci denuderanno. Speriamo solo che il freddo ci addormenti prima che comincino a mangiarci vivi.»
Lisa singhiozza: «Altro che la tua mela, Rosso. Noi sì che siamo la loro abbondanza.»
La terza ondata di argilla diventata creta si sta avvicinando.
«La mela! Il verme! Facciamoci sputare fuori.» Rosso fruga freneticamente nel sacco più vicino. «Eccoli!» grida trionfante. Estrae i barattoli del carburo e comincia a spargerne i pezzi sul fango tutt’attorno. A contatto con l’acqua il carburo sviluppa acetilene che si incendia. Vampate di luce bianchissima avvolgono i tre speleologi mentre gli scoppi e i sibili della reazione riempiono la grotta di echi. Sembra un urlo di dolore. Anche Lisa e Ramon spargono carburo a piene mani. L’ondata di creta li raggiunge. Ora è quasi solida, e una seconda ondata si sta già formando sotto di loro, un terzo ribollire, parossistico si annuncia appena più in basso.
«Tossisce, ci sputa» urla Ramon. Sganciamoci e risaliamo, l’argilla è ormai creta consistente.»
«Sei pazzo! Se ci sganciamo ci inghiotte.»
«No! Ci sta sputando fuori.»
Era vero. Le ondate di argilla consolidata li stavano sospingendo in alto. Tagliano i cordini e salgono, due passi in alto e uno sprofondando in basso finché una nuova onda li raggiunge e li sospinge nuovamente. Cercano di puntellarsi l’un l’altro. I cavalloni di creta proseguono anche nello scivolo d’ingresso e li spingono sempre più su finché Rosso riesce ad aggrapparsi alla stalagmite e Lisa e Ramon alle sua gambe. Un ultimo sforzo ed escono dalla fanghiglia. Cominciano a correre, ansimano, ripercorrono la galleria guardandosi indietro, aspettandosi una ondata di fango che li inghiotta. Ma qui c’è solo la normale fanghiglia, percorsa da un rigagnolo d’acqua. Cercano di sciacquarsi gli stivali, di togliersi di dosso il fango batterico e di lenire i bruciori delle mani ustionate dal carburo. Uno stivale di Lisa sta perdendo la suola. Rosso gliela lega avvolgendole attorno un fazzoletto. Tutti gli stivali appaiono malconci e prossimi a disfarsi, le tute sono corrose e smangiate qua e là.
Arrivano al Pozzo Grande. La corda di risalita, con le sue staffe è al suo posto, dietro non c’è nessuna ondata di fango che li insegue. Respirano di sollievo.
Lisa aggancia i bloccanti alla corda di risalita, poggia il piede nella staffa e finalmente sorride: «Non sono mai stata così felice di essere un verme.»


 
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49 replies since 31/10/2012, 16:20   513 views
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