| «In isolamento, vi dico.» «Ma perché?» «Sentite, non è colpa mia, va bene? Hanno ordinato così. Andiamo.» La guardia lo afferrò dalla collottola, tirandolo su, e lo costrinse a camminare; percorrendo il corridoio, le catene che si trascinava dietro facevano un gran fracasso. «Forza,» fece il carceriere, «non rendete le cose peggiori di quel che già sono. Muovetevi. È tardi.» «La fate facile, voi. Sono io quello col ferro ai piedi. E voi non volete dirmi il perché dell’isolamento…» «Perché, perché» ribatté l’altro, fermandosi ad aprire una porta e spingendo avanti il prigioniero, «sapete meglio di me come funziona qui. Non c’è sempre un perché. Ora, scendete.» La porta dava su una piccola stanza, illuminata a malapena da una minuscola grata; nel pavimento si apriva invece una scala a chiocciola che scendeva giù, nelle profondità delle segrete. Lui ci era già stato e non gli piacevano proprio: per quanto potesse essere sgradevole una cella, la sua era di certo preferibile alla zona sotterranea del vecchio carcere. Incassate nelle fondamenta dell’edificio, le segrete erano la zona più antica, secondo alcune stime risalente addirittura all’alto Medioevo; stanzette minute, a volte scavate direttamente nella roccia, umidissime e puzzolenti. Laggiù si respirava un’aria stantia, rafferma, quasi fosse sempre la stessa da quando il convento era stato trasformato in carcere, secoli addietro. E ora lo prendevano dalla sua cella e lo cacciavano lì dentro. Perché? Era vero che la politica della prigione era strana, ultimamente; gente presa e spostata in altri locali, gente liberata, gente sparita nel nulla. La cosa inquietava un po’ i prigionieri, e già avevano iniziato a girare storie su scambi di persone, omicidi, anche una vecchia leggenda su certi riti oscuri praticati nel convento medievale…ma in tempo di guerra, si sapeva, c’era sempre una gran confusione e una gran voglia di chiacchierare. Giunsero alla fine della scala, e presero il vecchio corridoio che conduceva alle celle; vide molte porte chiuse, segno che altri erano stati portati in isolamento. Meccanicamente si fermò davanti alla prima porta aperta, sicuro che gli toccasse entrare; ma la guardia lo spinse oltre. Lo condusse per altri corridoi, androni, sale; non avrebbe mai detto che i sotterranei del carcere potessero essere così estesi. E iniziò ad inquietarsi. Se prima era quasi seccato dal doversi sorbire qualche giorno d’isolamento, ora la noia faceva posto alla paura e a tutte quelle storie sulla gente scomparsa nel carcere; certo, quando c’era un’esecuzione lo si sapeva subito… ma se le guardie avessero voluto far tutto di nascosto? Se l’avessero ucciso lì, e basta? Perché poi? La guardia continuò a guidarlo per anfratti e cunicoli, finché non giunsero ad un’altra scalinata; diritta, scendeva in profondità e nel buio. Il carceriere prese una torcia dal muro, e sguainò il coltellaccio che portava legato alla cinta. “Ecco,” pensò il prigioniero, “adesso mi ammazzano qui e mi lasciano a marcire nei sotterranei”, e stava già per urlare. Ma l’altro lo anticipò. «Scendete, per favore.» «Dove mi portate?» «In isolamento. Scendete, per favore.» «Volete uccidermi?» «Oh, ma che dite? Ve l’ho detto, andate in isolamento.» «Ma le celle vuote, prima…» «Sentite, vi ho già chiesto cortesemente di non rendere le cose più pesanti. Vi assicuro che non devo uccidervi.» «E il vostro coltello, allora?» «È per precauzione.» «Per cosa?» «Per favore, non costringetemi a usare la forza. Scendete.» Titubante e dubbioso, iniziò a scendere le scale. I gradini erano umidi, ricoperti di muffa, ma si capiva che erano di una pietra diversa rispetto al resto delle segrete. Mattoni più grossi, più chiari. Incespicò un paio di volte nelle proprie catene, trattenuto dalla guardia che gli impedì di cadere. La discesa continuò per un bel po’, alla sola luce della torcia; poi, giunti alla fine, la guardia lo spinse ancora oltre l’ultimo gradino, sul pavimento anch’esso in mattoni, davanti ad una porta di legno dall’aspetto vetusto. «Lì,» disse la guardia tirando l’anta, «lì dentro. Entrate.» «Fa freddo qui sotto.» «Vi porterò una coperta, dopo. Ora entrate.» Si fece coraggio e varcò la soglia, immergendosi nel buio più completo. Non c’era assolutamente nessuna fonte di luce nella stanza, e la torcia del secondino riusciva appena a illuminare l’ingresso. Stava già per voltarsi e chiedergli di portarlo altrove, quando la porta si richiuse alle sue spalle lasciandolo da solo nell’oscurità. L’aria puzzava di vecchio e l’umidità pareva raggiungere direttamente le ossa; nel buio completo l’uomo si avvicinò alla porta, tastando il legno. Udì i passi della guardia allontanarsi, su per le scale, perdersi lontano. In pochi istanti, ancora con l’orecchio teso ai suoni al di là della porta, si riconobbe completamente e assolutamente solo. Solo, in una cella vecchia centinaia di anni, sotto chissà quanta terra e quanta pietra, in un posto in cui avrebbe dovuto passare chissà quanto tempo. Intuì di stare già tremando, più per la tensione che per il freddo. Ancora in piedi davanti alla porta, cercò di calmarsi e di razionalizzare la situazione. “Bene,” si disse, “ti hanno messo in isolamento, in una cella vecchia e buia in cui dovrai restare un bel po’. Di solito si tratta di due o tre giorni, ma è meglio non farsi illusioni. Ora, resta tranquillo, e inizia a vedere quant’è grande questo posto.” L’idea di rendersi conto della larghezza del luogo gli piacque molto, gli sembrò un buon punto di partenza per iniziare a passare il tempo. Fu con una certa determinazione, quindi, che prese a tastare il muro subito alla sua destra, tenendosi la porta alle spalle. Avanzò camminando piano, tenendo una mano davanti a sé e una sulle vecchie e muffose pietre. Dopo cinque passi incontrò l’altra parete, l’angolo; fece lo stesso percorso in senso opposto, ripassando davanti alla porta, incontrando l’altro muro a distanza uguale. “Sembra,” considerò, “che la stanza sia quadrata, o al massimo rettangolare.” Dall’angolo scelse di seguire il muro, per capire quale fosse la lunghezza della camera. Avanzò quindi nella stessa maniera, aspettandosi di trovare il fondo della stanza dopo quattro o cinque passi. L’aria stantia iniziava a pesargli nel petto, il respiro gli veniva a fatica; e si innervosì lievemente quando si accorse che la stanza era più grande di quel che potesse aspettarsi. Aveva già fatto almeno una decina di passi, infatti, senza incontrare né muri né ostacoli di alcun tipo. Perché metterlo in isolamento in una cella così grande? Da solo, poi… Continuò a camminare: quindici, venti, venticinque passi e ancora il fondo non si vedeva. O meglio, non si toccava, dato che il buio lì dentro era assoluto. Gli venne in mente che forse la stanza aveva pianta irregolare, e immaginò che dal muro opposto a quello che ancora toccava con la mano partisse una parete obliqua, che andasse a chiudersi in diagonale davanti a lui, sicuramente a poca distanza, ormai, tre, al massimo quattro passi… Invece ne fece altri dieci, di passi, e non trovò nulla. Si fermò. Chiaramente c’era qualcosa di sbagliato, in quella cella. Forse non era proprio una cella d’isolamento, forse era un magazzino, o una cisterna riadattata… o una cisterna e basta. Ma perché metterlo lì? Da solo. Ripensò ancora una volta alle storie sui prigionieri spariti nel nulla, dimenticati negli anfratti della prigione. Baggianate. Eppure? Perché era lì? Lì e non in una cella normale? Il respiro gli si fece ancora più pesante quando avvertì uno strano olezzo nell’aria; un tanfo sottile, acido, ben distinto dalla puzza di chiuso e di umido… Lo disgustò abbastanza. E lo fece sentire ancora più affranto; ebbe l’impulso di buttarsi a terra e piangere, ma riuscì a trattenersi. “Piangerò vicino alla porta”, si disse istintivamente, e trovò la cosa stranamente rassicurante. Si mescolavano in lui, infatti, la tristezza per la propria condizione di solitudine e l’inquietante sensazione di trovarsi in mezzo al nulla. Il contatto col muro era incredibilmente rincuorante, più di quanto gli sembrasse lecito aspettarsi da un muro. Del resto, non aveva mai trovato dei muri rincuoranti, prima di allora… neppure nel carcere normale, lì sopra. Girò su se stesso e prese a fare la strada al contrario, in direzione della porta. Non poteva aprirla, sicuramente, ma era pur sempre l’unica cosa che rappresentasse il mondo fuori dalla cella; la cella, l’oceano di buio che al momento lo opprimeva così orribilmente. Trovò ulteriore conforto pensando al momento in cui ne sarebbe uscito, finalmente, e si sarebbe lamentato con la guardia di quel trattamento incredibile. Ammesso che gli fosse consentito protestare, certo. Pensava e camminava, a ritroso accanto al muro. Poi sentì il rumore. Un rumore alle sue spalle, indefinito, lontano, secco e veloce insieme. Senza rimbombo, o eco. Concluse che fosse uno dei tanti rumori del vecchissimo edificio, o magari qualcuno che si muoveva ai piani di sopra… sempre che ci fossero dei piani di sopra, dato che per quanto aveva camminato con la guardia, si poteva dire che la cella fosse lontanissima dal nucleo centrale della prigione. Nel buio, ancora, sentì un suono. Un rumore veloce, un passo. “Chi c’è”, pensò. «Chi c’è?» urlò, senza voltarsi, e un brivido gli percorse le ossa mentre aspettava la risposta. Ma non udì niente; e intuendosi ancora i brividi addosso, avvertì una goccia di sudore percorrergli la schiena. Si aspettava forse una risposta, lì sotto? Se ci fosse stato qualcun altro lì dentro, lo avrebbe chiamato non appena lo avesse visto entrare nella stanza. E comunque, questo ipotetico qualcuno sarebbe sicuramente stato vicino alla porta. Indubbiamente. Immaginò una fine della cella, in cui l’altro prigioniero, seduto, fermo, sdraiato, immobile, lo aveva visto entrare e stanco per… Ma ecco, un nuovo rumore, un nuovo passo. Sentì più forte l’odore disgustoso di prima. Forte, intenso, nauseante. Si voltò, e «chi c’è» ancora disse. La risposta fu, questa volta, un altro passo. E un altro. E un altro. Si accorse di avere iniziato a tremare e di stare anche ansimando. «Chi è là?», urlò. Passo, e passo. Non sembrava neanche che i rumori si avvicinassero. Forse non erano passi, forse era davvero qualcos’altro, di esterno alla cella. L’idea portava un insospettabile sollievo; essere solo, lì dentro, gli sembrava la cosa migliore al mondo. Solo, assolutamente solo, senza nessuno che camminasse. Chi aveva bisogno di qualcuno, lì? Era solo. Era solo? No. Sentiva distintamente, e non con l’udito, che qualcuno c’era. E che in realtà si avvicinava. Avvicinava. Si ritrovò a camminare ancora, anzi a correre lungo il muro verso la porta. Non poteva controllarsi, e riconobbe di essere nel panico. Dimenticò anche di mettere una mano avanti a sé. E di colpo sentì l’odore acido, fortissimo; poi si accorse di essere disteso a terra, con un forte dolore alla fronte una sensazione di calore sul volto. Aveva battuto al muro, il muro dove stava la porta. Era vicino all’angolo, e nonostante un fortissimo giramento di testa riuscì a mettersi seduto e rannicchiarsi. Gli sembrò di avere i sensi amplificati; perfettamente avvertiva il freddo delle pietre su cui poggiava le spalle, l’umidità dell’aria, l’odore, la puzza del suo sangue mista a quella dei cadaveri in putrefazione, e il suono di passi, passi che si avvicinavano. Passi, sicuramente passi, piedi nudi uno davanti all’altro nel buio. Non potevano vederlo, certo; ma il rumore? Il suo stesso camminare e la botta contro il muro e la sua voce e tutto quel girare di testa… i passi, tanti, più di una persona, più d’un morto avanzare, correre ora verso di lui. Ansimava, e tremava, e ansimava sentendo il sapore ferroso del sangue tra i denti. I morti! I morti? Ma quali morti? Era da solo, lì. Nessun passo, nessun odore, solo la sciocchezza e la stupidità della paura… si ricordò della coperta che gli aveva promesso la guardia. Gli venne da sorridere, ma non lo fece. Non poté proprio, in nessun modo, sorridere, e fissò soltanto il buio davanti a sé. Distintamente nell’oscurità quelli correvano, senza respirare, o ansimare anche loro, niente, senza emettere nessun suono se non quello degli odiosissimi passi. Allora urlò, al limite dell’orrore; urlò, sperando che qualcuno lo sentisse, al di là della porta, al di là dei muri, la guardia, la coperta, lontano. Il suono della sua voce si perse nello scalpiccio di quei passi furiosi; e ancora, prima che i passi e l’odore gli fossero addosso, gridando e sempre chiedendo: «Chi c’è? Chi c’è?», sperò che almeno loro, almeno i morti gli rispondessero: «Tu! Ci sei tu!» Ma non udì niente, proprio niente, mai più.
|