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Wes Anderson

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view post Posted on 2/7/2014, 11:43
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Avendo visto al cinema The Grand Budapest Hotel, ho voluto farmi una cultura su Wes Anderson, regista/sceneggiatore di cui tanto avevo sentito parlare ma avevo visto ben poco.
Wes Anderson è un regista che si ama o che si odia. Senza mezza misure. Perché il suo cinema è un viaggio attraverso sentieri visivi e narrativi talmente personali da lasciare irrimediabilmente a terra, fermi e distanti, tutti coloro che non riescono a stabilire un immediato contatto.
In effetti, è come se ogni film di Anderson descrivesse e mettesse in azione un mondo chiuso, limitato, del tutto finito. Si tratta di mondi, o meglio di porzioni di spazio, che costituiscono fulcri narrativi ed emotivi e che seguono le loro regole, universi caotici e colorati che trovano in se stessi le intime ragioni di esistenza e da cui i personaggi non si allontanano mai. Mondi chiusi a livello narrativo, impermeabili all’esterno, tanto è vero che non c’è mai alcun richiamo a una dimensione sociale e politica. Tutto è costruito e riporta all’universo della narrazione.
Mondi che potremmo definire autarchici, così come autarchico è il quadro del cinema primitivo, che in un certo modo viene richiamato dalle tante inquadrature statiche, quei campi totali frontali di cui abbondano i film di Anderson.
Il cinema di Anderson si rappresenta prima ancora di narrarsi. Mondi piccoli e accoglienti come case…Eppure questi “film come case” di Anderson solo all’apparenza sono a chiusura ermetica. Perché stabiliscono, innanzitutto tra di loro, una serie di relazioni e rimandi fittissimi. È indicativo il fatto che il regista texano si affidi sostanzialmente agli stessi attori che attraversano i film passando da un personaggio all’altro e portandosi dietro una sorta di “memoria” dei loro ruoli precedenti. I migliori amici Owen Wilson e Jason Schwartzman che con lui scrivono I Tenembaums e Il Treno Per il Darjeeling; Bill Murray; Kumar Pallana; Adrein Brody; Anjelica Houston, siano essi protagonisti o ricoprano minuscoli e all'apparenza insignificanti cameo.
Secondo la venerata definizione data dai Cahiers du Cinéma, autore è il regista che infonde nei film, attraverso le scelte stilistiche, la propria personalità rendendosi riconoscibile anche da un unico fotogramma. Secondo queste premesse nessuno può negare a Wes Anderson la patente di “autore”.
Particolarmente a partire da The Royal Tenenbaums (2001), terzo lungometraggio ma primo successo di ampia portata, l’estetica, i personaggi, i temi, l’immaginario, il passo, persino il cast e la troupe scenica delle opere di Wes Anderson non subiscono variazioni di rilievo.
Wes Anderson ha un tema: la famiglia. Le dinamiche familiari sono il suo argomento. Famiglie disfunzionali composte da padri assenti, figli introversi ed eccentrici oppure famiglie ricreate tra outcast che si riconoscono per ovviare all’evanescenza della famiglia originaria il suo campo di indagine.

Una piccola analisi di qualche film:

I TENENBAUM
New York, anni settanta: Royal Tenenbaum e la moglie Etheline hanno tre figli piccoli, Chas, Margot e Richie, dotati di un grandissimo talento. Il primo a 12 anni è già un genio della finanza, la seconda, adottata, è una talentuosa drammaturga e il terzo un campioncino di tennis. Ma il tempo passa e le cose cambiano: a causa delle continue scappatelle di Royal, il matrimonio entra in crisi e i genitori si separano, i tre ragazzi crescono e il loro talento svanisce. Chas, vedovo con due figli, Ari e Uzi, è un ipocondriaco ossessionato dai pericoli; Margot, sposata ad un noioso accademico, Raleigh St. Clair, non scrive più, è una depressa cronica, fuma di nascosto e si perde in un malinconico declino; Richie sembra badare solo al suo falco addestrato ed è segretamente innamorato della sorellastra. Ma un giorno, dopo molti anni di assenza, Royal si ripresenta alla famiglia per cercare di salvare quel che può essere ancora salvato.
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Il film si presenta come un compendio di psicanalisi familiare. L'assenza di affetto paterno e una madre troppo debole per prendere decisioni risolutive evidenziano l'assenza di modelli da imitare per i bambini, che crescono e provano a maturare da soli, sbagliando a loro volta. I rapporti dei Tenenbaum sono tutti compromessi e l’unico modo per raddrizzarli spetta al padre, peccatore originale, che sul finale della pellicola si redime, cancellando l'insoddisfazione, i fallimenti e le incomprensioni.

IL TRENO PER IL DARJEELING
Tre fratelli che non si parlano da un anno pianificano un viaggio in treno in India, con lo scopo di ritrovare se stessi e il legame reciproco che avevano un tempo.
Circa un anno dopo la morte del padre e dopo che, apparentemente, hanno deciso di non comunicare più tra loro, Francis, il maggiore, riunisce i diversi fratelli dopo il suo incidente motociclistico quasi mortale, che lo ha lasciato avvolto da una maschera di bende. Sostenendo che i suoi fratelli sono stati la prima cosa a cui ha pensato quando è tornato cosciente dopo l'incidente, Francis organizza un itinerario accurato e pianificato rigidamente, a bordo di un treno speciale, il Darjeeling Limited, ideato appositamente per provocare nei fratelli una rinascita spirituale che li unisca o che almeno li avvicini.
L'obiettivo di Francis è portare i fratelli al convento himalayano dove si è ritirata a vivere la loro madre Patricia, dopo aver cercato di evitare i contatti con i figli.
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« Per aver affrontato con originalità, leggerezza ed ironia temi complessi quali i rapporti familiari, il viaggio come metafora di crescita individuale, il bisogno di riflessione e di distacco dalla realtà frenetica del mondo occidentale. Per la brillante interpretazione degli attori, per l’accuratezza e la raffinatezza delle immagini resa attraverso un montaggio efficace e puntuale, per aver creato un mondo unico capace di coinvolgere ed emozionare, offrendo più piani di lettura tali da soddisfare diverse fasce di spettatori. »
(Motivazioni della vincita del Leoncino d’Oro 2007 alla 64ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia).

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